19 ragazzi dell’Alta squadriglia del gruppo scout Cesena1, 6 capi, 2 cambusieri, 3 giorni di triduo pasquale e 1 città stupenda: Assisi!!! Un mix perfetto per prepararsi alla Pasqua, un mix perfetto per riscoprirsi scelti, benedetti, spezzati e amati!!!

Ora, mentre mangiavano, Gesù prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e, mentre lo dava ai discepoli, disse: “Prendete, mangiate: questo è il mio corpo”.  (Mt 26,26)

Prende, benedice, spezza e dà il pane come il suo corpo, ogni giorno nell’eucarestia. Quattro azioni e un unico mistero, quello della vita di Gesù. Queste le quattro parole che ci hanno accompagnato a vivere il triduo ad Assisi nella città di Francesco. Quattro parole che abbiamo ritrovato nella sua vita e nella nostra.

Presi, o meglio scelti, come Francesco chiamato a riparare la casa del Signore, la Chiesa, e non solo quella di san Damiano ma quella nel cuore dei credenti, il corpo vivo di Cristo. Ma anche noi siamo scelti, da Dio, attraverso il battesimo, in modo unico e personale, scelti per far parte della chiesa, della famiglia umana. Un amore completamente gratuito che mentre sceglie non esclude nessuno, anzi, amplifica cuore e mente!

Benedetti, cioè confermati nel bene! Francesco ha vissuto la conferma nel bene quando il Signore gli ha mandato dei fratelli. È nelle relazioni che scopriamo e viviamo il bene. Sono i fratelli e le sorelle che ci dicono la nostra preziosità, il nostro essere benedetti, il nostro essere amati. Siamo lo specchio gli uni degli altri, uno specchio da solo non può far vedere nulla ma se ha davanti un altro specchio può riflettere la bellezza che lo abita.

Spezzati, cioè crepati, fragili, bucati…. Chi non ha fratture? Chi non ha mai sentito l’insicurezza, l’abbandono, la solitudine, l’esclusione, il giudizio, il rifiuto, il dolore…. Gesù il venerdì santo si lascia spezzare, trafiggere, bucare, crepare. La vita ha tanti sapori: dolce, amaro, piccante, acido, salato! Attraverso ognuno di essi la grazia diventa luce, bene, amore. Come succede nell’incontro con il lebbroso, ciò che era amaro è diventato dolce!

Dati, dati al mondo per diventare semi di amore, semi di bene. Gesù scende nel silenzio del sepolcro, i discepoli attendono insieme nel cenacolo, Francesco chiede di essere steso nudo sulla terra nuda per morire. Come il seme che fra gli altri semi e nel silenzio della terra cresce e diventa un albero che dà frutti. E come ci ricorda Francesco: “Nulla di voi trattenete per voi perché totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si offre”.

Scelti per ricevere la benedizione,

benedetti per scoprirsi spezzati,

spezzati per essere dati,

dati per sentirsi amati.

Quando ho deciso di partire per la Colombia non volevo avere grandi aspettative, volevo lasciarmi sorprendere e ora che sono tornata dal viaggio posso dire che è stata la scelta più giusta che io potessi fare.

La Colombia mi ha sorpreso sotto vari punti di vista ma quello che mi ha colpito di più è stata la gentilezza delle persone. L’accoglienza che ho ricevuto al mio arrivo e l’attenzione che le persone mi hanno dedicato rimarranno per sempre la parte migliore di questo viaggio. È incredibile come la presenza delle persone giuste riesca a farti sentire a casa nonostante la tua vera casa sia a migliaia di kilometri di distanza. È bellissimo sentirsi parte di una comunità e vedere come le persone sono disposte a farti entrare nelle loro vite e nelle loro case.

Il viaggio in Colombia mi ha cambiato, mi ha permesso di ridare il giusto peso alle cose e mi ha fatto sentire estremamente fortunata. Mi spiego meglio: sono stata accolta in una casa che a malapena definirei tale e mi hanno offerto tutto ciò che potevano darmi, una tazza di latte e caffè a cui non ho potuto dire di no. Ho sentito storie di ragazzi con un finale terribilmente triste eppure chi me lo raccontava lo faceva con fede, senza perdere la speranza e con un sorriso in volto.

Le persone più povere che ho incontrato sono state quelle che mi hanno offerto tutto ciò che avevano ed è proprio qui che ho visto cosa significa offrire senza volere nulla in cambio.

È stato un viaggio fantastico dall’altra parte del mondo ma anche un viaggio dentro me stessa che sicuramente ricorderò per sempre.

 

Scrivo dalla Spagna, al freddo, all’inizio di una nuova avventura, ancora una volta come straniero e subito, per contrasto, mi viene in mente il caldo sole che mi ha accolto in Colombia. In realtà, i primi giorni sono stati i più difficili. Arrivato un giovedì sera, la scuola l’ho vista prima silenziosa. Un paradiso terreste -se non sei uno studente- che aspettava di accogliere i ragazzi e che sarebbe stata la mia casa per 6 settimane. Dalla mattina seguente, con un tentennante spagnolo, ho provato a lanciarmi il più possibile, trovando altre forme di comunicazione, a partire dallo sport, grazie alle quali subito i ragazzi hanno cercato di farmi sentire accolto. Tuttavia, suonata la campanella, la scuola è tornata come la sera prima, un meraviglioso angolo di Cartago protetto da cancelli e filo spinato, barriere che non mi impedivano però di vedere il quartiere Bellavista, uno dei più poveri e problematici della città. La sera prima non ci avevo fatto molto caso, ma, rigorosamente accompagnato dalle suore, la mattina stessa siamo andati a fare una visita.
Io non ero pronto a vedere la casa di Cristina. Uso la parola casa solo per la dignità di questa mamma che durante la pandemia, si era messa a costruire, con il fratello, una casa per loro, la nonna e la bambina che in quel momento era ancora a scuola. Nonostante i loro sforzi, poiché quella è zona di invasione (quindi ognuno costruisce come e dove può), il terreno non ha retto e la casa è pericolosamente incrinata. E’ difficile descrivere a parole: bisogna camminare sulle assi che si piegano e gemono al passaggio, con la costante sensazione che sia la casa stessa a cadere e poi pensare di viverci tutti i giorni. Cristina era fiera della sua casa e ha solo chiesto alle suore che la aiutassero con un piccolo muricciolo in cemento, ma era evidentemente stanca e provata. Seduta cucendo sul divano, tutta la famiglia stava aggrappata alla nonna, che con il suo fare allegro sembrava davvero tenere alti non so il morale, ma anche le pareti stesse.
Dopo quest’avvio intenso, sono calati due giorni di silenzio quasi completo. In questi giorni guardavo da lontano le povere case ammassate e mi sentivo inutile, completamente impotente di fronte a un mondo più grande di me. Non mi ero reso conto di quanto fosse dentro di me l’idea di dover partire per cambiare il mondo, ma in quel momento mi è parso evidente ed era altrettanto chiaro che non ci sarei riuscito, per lo meno, non come sognavo.
Nei mesi successivi mi sono accorto che più che tutto il resto del mondo sono cambiato io. Il grande rischio di vivere fuori dal paese natale è vedere i propri punti fissi traballare, in maniera particolare perché ero circondato da gente coinvolgente quanto i Colombiani, che mi hanno sempre aperto le loro case, ricche o povere che fossero, lasciandomi entrare nelle loro vite e condividendone un pezzo. Ognuna delle loro storie meriterebbe di essere raccontata, ma già adesso i nomi e i volti di questi rapidi incontri sfuggono alla memoria e allora mi chiedo cosa mi rimarrà di loro e cosa a loro di me. Alla prima parte ho già risposto, ogni persona in Colombia mi ha aiutato a crescere e conservo gelosamente le loro storie nei diari di quei giorni. Allo stesso modo penso però che il cambiamento non è mai unico. Ogni volta che i ragazzi si aprivano a giocare con me, ascoltavano le mie noiose lezioni, mi insegnavano un ballo, un gioco, uno scioglilingua, stavamo costruendo qualcosa di diverso, un mondo un po’ più incline ad accogliere lo straniero. In fondo io gli ho portato una visione diversa, una realtà lontana, in cui certe dinamiche che attagliano questo posto non sono considerate normali, in modo che almeno sappiano che esiste un altro modo e magari gli venga voglia di viverlo. Questo ho provato a dire ai ragazzi gli ultimi giorni di permanenza, che un caso fortuito ha voluto coincidessero con la settimana della pace: Sois semilleros de paz (State seminando la pace), perché la vera pace è questa accoglienza e confronto tra culture.
Il mio viaggio però ancora doveva terminare. L’ultima settimana l’ho passata tra Villavicencio e Bogotà. Qui ho avuto l’occasione di conoscere diversi ragazzi della mia età e, con un po’ di sensi di colpa, ho scoperto di avere il grande dono di poter vivere i miei 20 anni, “la gioventù”, studiando e viaggiando, mentre molti di loro non possono. Alcuni di loro non vivono neanche l’adolescenza o l’infanzia, perché soprattutto tra le fasce povere si deve diventare adulti in fretta e uscendo da scuola (16/18 anni) i ragazzi spesso si trovano ad affrontare una vita per la quale non sono pronti, perdendosi in tanti modi.
Dentro di me urlano le storie non scritte, ma spesso mi chiedono cosa mi manca di più della Colombia e racconto una di queste storie, perché sì, è difficile lasciare il patacón, il cholado… però alla fine sono le persone e i loro modi di vivere che mi rimarranno dentro, un’allegria contagiosa che accende questa terra latina e non fa dimenticare i problemi, ma aiuta a convivervi.

Quando Suor Chiara mi ha chiesto di scrivere per testimoniare la mia Missione a Charre.

subito le ho detto: ”adesso cosa racconto?” Racconto l’Africa che mi ha accolta come sua ”figlia”,

anche se per lei ero una perfetta sconosciuta e poi, dopo aver fatto la mia esperienza, l’ho salutata senza prometterle che

ci rivediamo, che un giorno potrebbe esserci la possibilità di un’altra occasione…con quale coraggio?!

Poi, mi sono seduta, mi sono “guardata dentro”, ho preso carta e penna…e ho iniziato a scrivere quanto segue…

Tankhuta maningi Charre

Mi mancherai Africa,

mi mancherai Charre,

mi mancherà ogni passo del mio cammino fatto insieme;

Mi mancherai Africa,

per la tua quotidianità semplice,

ma piena di ricchezza;

Mi mancherai per il tuo instancabile dare,

mi mancheranno i sorrisi,

mi mancherà quando i bambini chiedevano

un po’ di cibo per la fame;

Mi mancherà il loro buttarsi a Terra per la gioia,

mi mancheranno i tuoi TATA,

mi mancheranno i tuoi canti

e mi mancheranno le tue danze,

mi mancherà il tuo bussare alla porta senza orari;

Mi mancherai Africa per la tua NON indifferenza;

Mi mancherai Africa per la tua Grande Anima;

Mi mancherai Africa per il tuo Grande Cuore!

 

Ciao sono Gala, sono di Cesena e a luglio di quest’anno sono partita insieme a Chiara e a Claudia, verso una delle realtà missionarie delle suore della Sacra Famiglia, le quali ringrazio per avermi dato la possibilità di vivermi questa esperienza.

Invito chiunque sente la Missione dentro di sé di fare la valigia mettendo dentro tutte le domande che ha, dalle quali sicuramente verrà accompagnato durante il viaggio, ma quando tornerà, la valigia sarà ancora più pesante perché dentro la stessa, ci saranno le risposte e altre domande per cambiare lo sguardo verso noi stessi ed il prossimo.

 

Da secoli l’uomo, con occhi affascinati, guarda in su cercando risposte alle grandi domande nell’interpretazione del cielo e le stelle. È ammirando una realtà così distante dalle piccole vicende umane che Einstein intuisce la teoria della relatività: due stelle, due puntini lassù, per incontrarsi devono trovarsi nello stesso istante, nello stesso posto.
Non è forse questa un’evidenza che sperimentiamo ogni giorno? Per essere certa di partecipare ad un’importante riunione alle 8.00 a Milano, chiederò informazioni sulla posizione esatta e, per sicurezza, imposterò un promemoria qualche ora prima. Sarebbe un bel guaio se impostassi male l’indirizzo sul navigatore o se arrivassi in ritardo!

Anche gli incontri con Dio hanno uno spazio e un tempo dedicati, che, nel loro essere così profondamente umani, vengono consacrati dall’accoglienza della sua presenza. È su questo tema che si innestano le tre tappe di un cammino, tutto al femminile, che si svolge tra Santarcangelo, Cesena e La Verna, ospiti delle Suore della Sacra Famiglia (spazio per l’appunto) durante tre weekend tra gennaio e aprile (tempo).
Il primo appuntamento ha preso avvio da una riflessione sul nostro modo di relazionarci con lo spazio esterno. Possiamo sostare in un dato luogo o attraversarlo, abitarlo, evitarlo, rifugiarci, esserci trattenuti, stare in pace o trovarci scomodi. Sia che percepiamo lo spazio come cornice del nostro agire, sia che gli riconosciamo un ruolo di protagonista, certo è che ci condiziona e ci identifica come uomini.

Lo stesso Gesù si fa chiamare il Nazareno ad indicare che ha messo davvero radici sulla terra, che, nel suo essere “di ciccia”, ha affidato ad un preciso luogo il tempo della sua crescita fisica e spirituale. L’abbiamo seguito, leggendo il Vangelo di Marco, per le strade della Palestina dove, tra il trambusto della folla, compiva miracoli. E poi ci siamo intrufolate con lui nell’intimo delle case di amici, dove a pochi rivelava il senso di ciò che avevano/avrebbero visto e vissuto fuori. Abbiamo conosciuto un Gesù che sta al nostro fianco e rende la strada condivisa un cammino di vita costellandola di domande “Chi sono io?”, “Perché mi segui?” “Mi ami?” e che non ci abbandona anche nei passaggi più bui, come sulla barca in mezzo al mare “Sono qui, non temere”.

Ci siamo infine soffermate sul nostro io interiore, cercando di raffigurarlo come una casa, capace di accogliere e custodire la presenza di Dio. Etty Hillesum nell’orrore dei campi di concentramento scrive “L’unica cosa che possiamo salvare in questi tempi e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio”. Ecco allora che, tra tanta confusione, ferite e chiusure ci impegniamo a fare spazio a Dio, a liberarci delle etichette che utilizziamo per definirci e a mettere in discussione le certezze che difendiamo. Ci prepariamo a farci sorprendere un po’ più nudi, un po’ più veri dal nostro Dio, che con tanta delicatezza viene ad incontrarci. Vogliamo davvero fare “Centro” e sentire che sì, io “C’entro”, individuando e rimettendo al proprio posto le poche cose che contano!
Buon cammino di preparazione alla Pasqua

Le nostre motivazioni sono svariate: semplice curiosità, interrogazione, situazione difficile, tappa personale, bisogno di senso, intenzioni da portare, ma anche voglia di condividere o di ringraziare, di silenzio, di convivialità, di natura.
Anche le nostre situazioni personali sono diversificate: sposati, divorziati, vedovi, single in coppia, ma tutti figli e padri, ognuno a modo suo. Le nostre convinzioni spirituali vanno dal quasi niente al quasi tutto: non battezzati, lontani dalla Chiesa o resistenti, ma anche cattolici convinti e praticanti. E per tutti una relazione da iniziare, creare, esplorare o sviluppare con Dio.

La nostra presenza oggi in questi luoghi porta già in sé la testimonianza della Sua chiamata e della Sua presenza. Egli ci raccoglie insieme, Egli ci chiama, chiunque noi siamo e a qualunque punto siamo arrivati.
Ad immagine di San Giuseppe, durante questi giorni veglieremo fraternamente gli uni sugli altri, senza giudizio, nel rispetto della verità e del cammino di ognuno.

Questo cammino sarà a nostra immagine: delle volte sorridente e pieno di sole, altre volte triste e difficile. Ogni tanto sereno e fiducioso, e ogni tanto preoccupato e agitato. Sui sentieri degli appennini che custodiscono le tracce di San Francesco, percorreremo i sentieri della nostra vita, le vie della nostra relazione con Dio.

E al termine raggiungeremo La Verna, questo luogo di Dio, scelto da Lui per manifestare al mondo la potenza del suo amore per San Francesco. Prima che lì ci accolga, possiamo da subito girarci verso di Lui. Con benevolenza protegga i nostri passi e accompagni i nostri pensieri, i nostri incontri e le nostre preghiere durante questi tre giorni.

Le nostre motivazioni sono svariate: semplice curiosità, interrogazione, situazione difficile, tappa personale, bisogno di senso, intenzioni da portare, ma anche voglia di condividere opreghiere durante questi tre giorni.