Dall’oscuro alla luce

Mi è capitato di vivere con le suore: l’ho valutato come un miracolo del buon Dio, dopo aver sperimentato il carcere, una vita completamente opposta.

Le suore, da subito, mi hanno accolto con tanta serenità, come se mi conoscessero da sempre. Non pensate che parlino sempre di Dio, ma soltanto se lo vuoi tu. Insieme si ride, si scherza, si mangia, ci si aiuta…

Vivono il Vangelo di Gesù: accolgono, ascoltano, aiutano chi si trova in necessità.

Questa è la gioia delle suore!

CIAO SUOR MARTA!

Il libro della vita di suor Marta è composto di diversi capitoli.

Quello della famiglia: la famiglia Ventrucci, dove è nata nel febbraio del 1948.

Ultima di cinque fratelli, mai dimenticati, sempre coinvolti nelle sue scelte, sempre presenti nel suo cuore e nelle sue preghiere.

La sua consacrazione

Suor Marta è stata accolta nella nostra famiglia religiosa il 12 settembre del 1969.

Il 31 dicembre del 1972, festa della Sacra Famiglia, ha emesso la prima professione; nel 1979 la professione perpetua.

Da subito è emerso il tratto tipico di suor Marta: la ricerca e lo sperimentarsi. Questo l’ha portata a vivere i primi anni della sua Consacrazione, dedicati alla formazione e allo studio, tra la fraternità di Roma, Cesena e Firenze.

Dopo una prima esperienza missionaria di alcuni mesi in Colombia, a Duitama, in preparazione alla professione perpetua, viene trasferita a Modigliana e poi a Tossino, dove l’Istituto si stava sperimentando nella vita di una casa famiglia.

Nel 1988 viene chiesto a suor Marta di svolgere il servizio della formazione delle giovani suore a Bogotà, in Colombia, e prontamente riparte. Nel 1992 vive poi una nuova esperienza missionaria in Venezuela, per alcuni mesi.

Rientrata a Cesena inizia l’esperienza dell’insegnamento della religione nelle scuole medie.

Nel 1999 le viene chiesto di tornare a Roma per l’animazione della fraternità nel tempo del grande giubileo del 2000.

Nel 2003 entra a far parte della fraternità della casa famiglia di Rocca S. Casciano che lascerà per due anni, dal 2010 al 2012 per vivere a Capocolle. In questo periodo le è stato chiesto di organizzare le celebrazioni in occasione del centenario della presenza delle Suore della Sacra Famiglia a Brisighella.

Ritornata a Rocca S. Casciano, vi rimane fino allo scorso marzo, quando le sue condizioni di salute hanno iniziato ad aggravarsi.

Suor Marta ha vissuto la sua consacrazione sempre in ricerca, sempre spinta dal desiderio di conoscere più a fondo e di comprendere sempre meglio quanto la Chiesa indicava e donava, sempre con la necessità, l’urgenza di trovare un modo ed una maniera con cui rispondere e corrispondere più pienamente all’amore del Signore.


Le esperienze missionarie

In diversi momenti ha avuto modo di vivere la missione ad gentes. In Colombia, nell’ambito della formazione; in Venezuela per alcuni mesi, ed in Mozambico dove è si è fermata per sei mesi.
Una bella ed importante esperienza missionaria per suor Marta è stata l’animazione dell’Ufficio Missionario Diocesano, servizio che ha svolto con passione, con dedizione e amore nonostante fin da subito si fosse affacciata nella sua vita il mistero della malattia. Ha coinvolto, animato, attivato collaborazioni. Tutti si sentivano importanti e capaci di dare il loro contributo. Dovunque si trovasse a vivere, il mondo abitava il suo cuore.

La malattia

Lentamente nella vita di suor Marta è entrata la malattia, un mieloma, che con il trascorre del tempo si è fatto sempre più spazio, è diventato più aggressivo, si è preso sempre più energie. Tanti i tempi di chemioterapie, l’esperienza del trapianto e alla fine la sperimentazione di nuovi farmaci.

Forte è stata la sua lotta, sempre attiva, sempre con la necessità di comprendere cosa le stava succedendo e come avrebbe potuto rispondere nel modo migliore.

Il combattimento fisico era sempre accompagnato dalla lotta spirituale, dalla necessità di sentire, trovare, vivere tutto insieme al suo Signore. 

Non si è mai arresa. Sapeva di non poter guarire ma ha sempre guardato con speranza il futuro confidando anche nella più piccola possibilità di miglioramento.

Gli ultimi sei mesi

Il tempo in cui la malattia ha iniziato ad essere più esigente ed aggressiva, mostrando il suo artiglio più pungente, Marta è stata chiamata a vivere un ulteriore sfida: quella dell’umiliazione. Un corpo reso umile perché bisognoso di tutto.

È un capitolo relativamente breve, ma reso importante dalla docilità e dall’abbandono che suor Marta ha saputo vivere sempre di più, fidandosi e affidandosi, cogliendo fino in fondo la sfida bella della fraternità.

Si può essere missionari da un letto di malattia? Sì. Quando si custodisce il desiderio di conoscere, di sapere, di chiedere, di ascoltare, di desiderare e di sognare, di essere comunque e sempre in comunione.

Sono stati mesi importanti.

Importanti e belli.

Carissima suor Marta, ora possiamo dirci che non ce lo aspettavamo.

Ora non sappiamo più distinguere se siamo state noi ad aiutarti o se tu hai aiutato noi, sappiamo che 
è stata una grazia che ha allargato i nostri cuori, che ci ha fatto sperimentare, una volta di più, che

“è il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante.” (Antoine de Saint-Exupéry).

Ed ora suor Marta, l’ultimo capitolo del libro della tua vita, quello che hai iniziato a scrivere nella mattinata di giovedì.

 
Ci hai salutate con serenità ed abbandono, ci hai stretto la mano mentre sorella morte ha portato via il tuo respiro consegnandolo alle mani grandi del Signore, al cuore amante del tuo Sposo.

Siamo certe che stai già scrivendo nuove e più belle parole.

 
Le risposte alle domande esigenti e forti che sempre hanno abitato il tuo animo, non sono più lontane.
La contemplazione piena e profonda del volto di Gesù, che sempre hai cercato, ora si sta compiendo.

La possibilità di capire, comprendere e rispondere all’Amore con amore, che sempre hai desiderato, ora ti appresti a viverlo nella pienezza.

Ora suor Marta ricordati di noi, che continuiamo a cercare risposte,

che continuiamo a desiderare la pienezza del volto di Dio.

Stai più vicina alle tue famiglie, alla famiglia Ventrucci, alla Sacra Famiglia, e alle tante persone che in questi giorni ci hanno scritto o chiamato, dei tanti che oggi sono qui a vivere questa celebrazione Eucaristica con te e per te.

Rimani vicina e non smettere di incoraggiarci, di spingerci alla ricerca del Bene grande che è Gesù, alla ricerca di modi nuovi, sempre più autentici per continuare ad annunciare il bene grande che è l’amore di Dio.

E con le parole del cantico dell’Apocalisse che ogni domenica hai pregato nei vespri e che, ne siamo certe, ora stai vivendo, ti affidiamo alla misericordia del Signore: “Sono giunte le nozze dell’Agnello, la sua sposa si è preparata” (Ap 19,7).

AUGURI suor Vincenza!! 100 ANNI!!!

Tornare a messa: un bell’impegno o un impegno bello?


Condividiamo alcune riflessioni e provocazioni interessanti del vescovo di Crema, Daniele Gianotti, per poter tornare a celebrare l’Eucarestia, per lasciarci trasformare in Lui.

Buona lettura e meditazione!

La conversione dei Padri

Articolo di Rosanna Virgili.

Quanto abbiamo visto accadere nella Chiesa di Roma in questi giorni colpisce profondamente. Assistere ad una liturgia penitenziale nei Palazzi del “potere” terreno e celeste del Vaticano, celebrata verso sé stessi da chi ne è normalmente ministro per il popolo di Dio, è affatto inusuale.

Sacerdoti posti dalla parte dei penitenti, come i laici, come i peccatori. Un fatto che assume un valore di portata storica. Dalle stanze dirigenti e docenti del Vaticano, spesso, in passato, velate o chiuse, esce un ossigeno di libertà, un’aria profumata di verità. Non di una verità dogmatica, che scende dalle cattedre di cui i Vescovi sono titolari, ma che viene dalla realtà, dai “piedi” della chiesa, dalla voce di chi non ha voce e che vede riconosciuto al suo immenso silenzio il diritto alla parola e all’ascolto. L’immagine evangelica che splendidamente esprime questo rapporto è quella della peccatrice di Luca (cf Lc 7,36-50). Mentre il Fariseo la vede e la ignora e giudica – per la condanna – sia lei, sia Gesù; Gesù la indica come la vera maestra della legge e dell’amore, costringendo Simone a guardarla e ad imparare dai suoi gesti e dalle sue lacrime. Noi non sappiamo se il Fariseo si fosse, poi, convertito, ma abbiamo visto che i Padri assembleari di questi giorni, rappresentanti di tutti i Vescovi del mondo, l’hanno fatto. Con la mitezza di un orecchio attento e di un cuore nudo; con l’umiltà dell’accoglienza della verità, con il silenzio della vergogna e la pena delle lacrime.

Per noi, laici cattolici, è stata la prima volta in cui abbiamo assistito ad un clero contrito, non impegnato, innanzitutto, nell’esercizio dei suoi munera, ma dentro l’atto della fede proprio di ogni semplice battezzato: l’ascolto, la conversione e l’“eccomi”. Fondamento, del resto, di ogni credibile ministero e magistero; condizione per evitare di essere dei meri “funzionari” delle strutture religiose, o amministratori del sacro e proprietari dei suoi profitti. Per questo quanto è accaduto non è solo una “pietra miliare” nella vita della Chiesa, (Jerry O’Connor) ma anche una grande festa.

C’è un secondo aspetto di non minore importanza, quello del metodo: la celebrazione pubblica di questa “liturgia penitenziale”. La Comunità cristiana intera ne è stata informata e testimone. Le pubbliche relazioni dei lavori dell’assemblea hanno coinvolto i cristiani, in modo che potessero parteciparvi; del resto la chiesa è la famiglia di tutti, alla cui salute tutti debbono collaborare condividendo le responsabilità, le fatiche, il peccato, la grazia e la sapienza delle analisi e delle decisioni. Certo, l’attore principale è stato ancora una volta il clero, ma un clero che presenta sé stesso al cospetto della “rabbia” di Dio, espressa dalle vittime – com’ha detto il Papa – e che rinuncia a difendersi corporativamente, ma si espone al giudizio e al confronto. Un clero che “accusa sé stesso” mostrando, così, timor di Dio, invece di accusare gli altri, sempre secondo le parole di Francesco. La trasparenza dell’assemblea fa di questa riunione una pagina degli Atti degli Apostoli, dove pubblicamente e in assemblea plenaria si discuteva sulle questioni essenziali della fede evangelica.

Il terzo grande merito di questa assemblea è il rapporto che ha voluto stabilire con le società civili di ogni nazione in cui la Chiesa è attendata. L’alleanza è, innanzitutto, con chi lotta contro gli abusi sui minori e si impegna, in vario modo, contro ogni violenza di tal genere. È così che l’atto penitenziale celebrato si trasforma in vera conversione, vale a dire non solo nel proponimento di cambiare rotta, ma nel diventare parte della soluzione. Vuol dire prendere impegni precisi e tassativi su cosa fare nel presente- futuro contro la “guerra” che, in tutto il mondo, viene portata, ogni giorno, ai bambini e ai ragazzi, alle donne e ai più deboli.

Una conversione che è, del resto, un tutt’uno con la vocazione cristiana, la cui pura identità è dettata da Gesù: “Lo Spirito del Signore è su di me; mi ha inviato a portare il vangelo ai poveri, ai prigionieri la liberazione, ai ciechi la vista, a rimettere in libertà gli oppressi” (Lc 4,18). Proprio dai piccoli, dagli inermi, dagli esclusi, Gesù ha avuto la gioia più grande, poiché a loro il Padre ha rivelato il mistero del Regno dei cieli. Se la Chiesa non fosse leale nell’annuncio al mondo di questa Buona Notizia, non solo non resisterebbe, ma non avrebbe neppure ragione di esistere.

Per questi ed altri aspetti qualcuno ha parlato di inizio di Riforma della Chiesa cattolica. Noi ci speriamo e ci crediamo fermamente.

La potenza del male

Nel suo discorso conclusivo Papa Francesco ha definito gli abusi sui bambini il segno tangibile del male. Criticando la debolezza dell’ermeneutica positivistica, ha affermato con forza che per una simile mostruosità non c’è spiegazione, né, tanto meno, giustificazione “umana”, poiché l’orrore supera l’uomo, al punto che dobbiamo ricorrere all’opera di Satana. Per chi avesse visto concretamente la devastazione degli abusi sulla carne dei piccoli questa idea non sarebbe affatto peregrina. Vedere neonati di un mese sfregiati con coltelli da cucina sull’inguine, o bruciati da mozziconi di sigarette spenti sulle parti più delicate e sensibili del corpo; bambini di meno di un anno letteralmente scotennati con geometrica cura; piccoli di quattro o cinque anni costretti a ingoiare pastiglie per fare cose che mai potrebbero fare, in condizioni di normalità, sul corpo del carnefice; beh queste e altre migliaia di fantasie del genere non possono davvero venire che dal Maligno. Tanto sembrano superare un livello di male compatibile col termine: “umano”. La pedofilia, o l’infantofilia, – e quanto è terribile l’equivoco linguistico! – non è fatta – ahimè! – di carezze, ma di violenza inaudita, mortifera, diabolica davvero, nel suo calcolo, nella sua programmazione, nella sua reiterazione, nel suo compiacimento della repressione e della sofferenza della vittima, nella malvagità del veder distruggere il germoglio dell’umano. Vale a dire di sé stessi! Quanto rende inevitabile l’interrogazione a Dio: com’è possibile che l’uomo sia capace di tanto?

Una pagina della Bibbia risponde: “Io pongo dinanzi a te la vita e il bene, la morte e il male” (Dt 30,15). Dio ha dato all’uomo, in effetti, la facoltà di fare il bene, così come di fare il male. L’essere umano può volere e fare il male. Proprio per questo Gesù dirà sulla Croce: “perdona loro, perché non sanno quello che fanno”. Non conoscono la potenza del male, lo sfregi sul corpo degli innocenti, che Gesù ha conosciuto. Per questo la guarigione dal male dei pedofili potrà venire non dalla loro eventuale, riscoperta virtù, ma dalla grazia delle loro vittime.

Vittime e carnefici

Ciò che sorprende nel fenomeno della pedofilia è, ancora, l’elemento degli ambienti nei quali si consuma: la famiglia, innanzitutto, poi la scuola, la palestra e la chiesa. I luoghi in cui non solo i bambini, ma tutti noi viviamo e i nostri figli crescono fidandosi e affidandosi. E qui si impone il tema delle donne e delle madri. Com’è possibile che le madri non vedano o non sappiano, non si accorgano, o non denuncino, non sottraggano i loro figli ai mariti e padri, agli zii e nonni? Che succede alle madri? Se pure le cinghiale diventano aggressive e capaci di sbranare chiunque si accosti ai loro neonati, perché le madri dei bambini violati, anche fin da piccolissimi, non sempre si rivoltano ai loro congiunti o agli altri che ne approfittassero? In quali condizioni versano le madri dei bambini e dei ragazzi che subiscono stupri o violenze pedofile? Spesso violentate esse stesse, vivono nel terrore. Ricattate e senza lavoro, non possono pensare di liberarsi dai loro uomini feroci. Spesso private da ragioni antiche di consapevolezza, di forza interiore, sottomesse nelle coscienze al potere maschile ed ai suoi arbìtri. Sole e senza dignità, né parola, né alcuna facoltà di agire.

Ho conosciuto donne nate da stupri – consumati da uomini vecchi su membra poco più che bambine – stigmatizzate e isolate – anche fisicamente – nelle scuole religiose come “figlie del peccato”. Un fatto che appartiene al passato, quando nessuno denunciava simili cose, ma che ci fa capire come sia verosimile che il crimine del pedofilo diventi, paradossalmente, l’origine del senso di colpa che schiaccerà il cuore della vittima.

Il pensiero delle donne

Accanto a queste povere donne e madri, ci sono state, però, e ci sono in numero sempre crescente, le donne che gridano contro queste mostruosità, che denunciano, che mettono in pieno il loro impegno, la loro forza e il loro coraggio, la loro cura per trarre dal magma dell’orrore, sia i figli, sia le madri; sia le bambine, sia le donne.

Statisticamente, nella famiglia, come nella Chiesa, così come in altri ambiti della società civile, la pedofilìa è praticata in grandissima parte da uomini per cui, oltre alla conversione degli stessi – di cui vediamo, oggi, promettenti esempi – dovranno essere le donne a far da muro critico e di protezione tra padri e figli/e, tra vecchi e bambine/i; tra neonati di ogni sesso e maschi adulti malati o in cerca di affermare la loro smania di potere.

Un “muro” che si traduca in una strada per fare esperienza di relazioni sane e mature; che assuma parole e compiti di educazione e formazione della persona, affinché si diventi capaci, tutti insieme, di autentici rapporti umani, che non possono prescindere dall’affettività, dalla moralità e dalla spiritualità. Che porti a reclamare la paternità degli uomini, sempre più spesso disertata o rifiutata dagli stessi, attratti dal mito di un’eterna adolescenza. Il delitto della pedofilia è il delitto dei padri che rapinano la vita ai propri figli, e, nella Chiesa, il peccato che rende il mondo orfano di Dio e sospetta anche la Sua paternità.

Noi donne di ogni fede e cultura, non dobbiamo renderci complici dell’omertà, ma dobbiamo combatterla con decisione e radicalità; dobbiamo superare la paura maturata in secoli di sottomissione, ricatto, violenza e dipendenza che ci hanno fatto “snaturare” persino l’identità femminile e materna, al punto di indurci, talvolta, anche a una tragica e passiva connivenza.

A proposito della pedofilia nella Chiesa, lo storico Alberto Melloni ha dato un’origine molto chiara, ponendola, proprio, nel silenzio delle donne che venne loro imposto, pochi anni dopo la nascita del Cristianesimo, contro la logica evangelica (cf Repubblica 20 Febbraio 2019).

Papa Francesco ha pronunciato parole preziose a proposito della donna, dopo la relazione di Linda Ghisoni: “dare più funzioni alla donna è buono, ma dobbiamo valorizzare il suo pensiero”, ha detto. Sì la Chiesa cattolica ha bisogno di un “pensiero femminile” che aiuti a liberare e promuovere un fecondo pensiero maschile, così da farsi interprete, con esso, di quel “pros tò simpheron” “quel bene di tutti” che è la costruzione del “corpo” della Chiesa (cf. 1Cor 12,7).

L’integrità e la comunione della Chiesa è, infatti, l’unica, autentica testimonianza del Corpo del Signore: insultato, violato, flagellato, ucciso, come tante delle nostre povere creature, ma poi Risorto. E proprio ai fini della testimonianza della Resurrezione, indispensabile è il pensiero e l’esserci appieno della donna, sentinella che veglia nella notte, sospingendo la luce sull’alba del Risorto, proprio come hanno fatto le donne dei Vangeli.

Benvenuta sr Loretana a Cesena!!!!

Da Roma, 8 luglio….  a Cesena, 5 settembre

Sapevo… che la prima casa dell’Istituto, da chiudere, sarebbe stata quella di Roma.

Non volevo crederci, mi sembrava lontano, impossibile per buoni  motivi  e… ho atteso,  per circa un anno, nella Speranza che non si fosse avverato mai…

Ho continuato il mio servizio in Comunità e nelle Carceri, come se tutto dovesse proseguire, sebbene  ogni tanto ritornava la data più definita, della chiusura e della partenza da Roma.

Non mi incuriosiva  neppure di conoscere dove il Signore mi avrebbe condotto!

E’ arrivato, poi, il giorno del passaggio della nostra casa, alle Piccole Missionarie dell’Immacolata, quello  della nostra partenza…e infine quella della Comunità che ci avrebbe accolto.

Quanti  interrogativi, quanti dubbi, quante emozioni…!!!

Domenica, otto luglio, ho lasciato le persone, la casa e la città di Roma, guardando ancora da lontano Cesena, perché la Volontà di Dio, per me, aveva preparato un viaggio itinerante di 60 giorni, sostando a La Verna, a Santarcangelo, ad Assisi, di nuovo a Santarcangelo…infine a Cesena. L’itineranza è stata una esperienza singolare, vissuta di alti e bassi, in compagnia dello Sposo, dello Spirito Santo, di Maria, di Madre Teresa…. Ogni giorno mi ha dato forza  l’Eucarestia, la Liturgica delle Ore, la preghiera personale di lode, ringraziamento, intercessione, supplica, lamento…

Non sono mancati tempi per il silenzio, la lettura della Parola, la Meditazione, l’Adorazione,… in particolare ad Assisi  negli Esercizi Spirituali  e nel Corso formativo per volontari.

Nelle soste del viaggio itinerante ho incontrato  Sorelle, Comunità, Parrocchie…  con volti diversi, che mi hanno portato ad uscire da me stessa, ad osservare,  a riflettere,  apprezzare anche altre realtà diverse dalle mie.    Ho vissuti  tempi di servizio, di riposo, di fatica, di fraternità,…nonchè  di fragilità, di provvisorietà e di stanchezza. Tutto ha concorso per crescere in  novità e ricchezza, per servire meglio il Signore, le sorelle e i fratelli.

Il 3  settembre è suonata la campanella della “sospirata aurora”:  ho riodinato i miei pensieri, la  mia volontà e i bagagli e… il  5  settembre sono arrivata  a Cesena.

Dopo una settimana di presenza, confondo ancora il luogo  delle cose, gli orari comunitari, le consuetudini della Comunità…, ma non ho paura, perché il Signore mi ha messo accanto sorelle speciali: accoglienti, attente, premurose, discrete…

 

75 anni con Gesù!!

Ti ho amato d’amore eterno, ti ho chiamato per nome.
tu mi appartieni da sempre, sei prezioso ai miei occhi”.

Con immensa gioia e gratitudine, il 24 agosto 2018  suor Agostina e suor Celina hanno ricordato il 75° di professione religiosa e suor Vincenza il 70°.  Tutta la comunità si è ritrovata attorno alla mensa eucaristica per ringraziare il Signore per il dono della  consacrazione religiosa e per  le meraviglie compiute nella vita di queste sorelle durante tutti questi anni.
Per loro ti chiediamo o Signore che ogni giorno possano continuare a ripetere ogni giorno il loro “si”  con gioia ed abbandono,  facendo memoria delle parole che ci ha lasciato Madre Teresa Lega: “Per il nostro Divino Sposo Gesù, che tanto ha fatto per noi, tutto è poco! si tutto è poco…” .

“…ero in Carcere e siete venuti a trovarmi”: la testimonianza di sr Loretana

“…ero in Carcere e siete venuti a trovarmi” (Mt,25,36b)

Queste Parole di Gesù, hanno echeggiato sempre nel mio cuore,…

Ebbi l’occasione di entrare in carcere, per una volta, nel vecchio carcere di Cesena, poi in quello di Chieti e di Forlì. Furono esperienze brevi, ma indelebili!

Nel 2015, “Anno della Misericordia” avvertii l’urgenza di donare più attenzione e più tempo a ”Visitare i Carcerati!”… oltre ai Poveri e agli esclusi delle periferie, Opere di Misericordia, tanto vive e raccomandate da Papa Francesco.  Per me, i Prigionieri erano ancora più estranei degli stessi Migranti che bussano spesso alle nostre porte. Decidermi per incontrarli, voleva dire bussare alla porta del Carcere e, fare  io stessa, la domanda di poter entrare e parlare con loro. Fui accompagnata da Don Roberto, Cappellano del Carcere Rebibbia e, responsabile dei Cappellani e delle Religiose che operano nel luogo. Mi fu guida in tutti i sensi e passaggi obbligati, per poter transitare, ogni volta, la porta blindata del Carcere e raggiungere il centro dei vari ingressi dei reparti: cinque larghi cancelli con cinque lunghi corridoi, simili a strade a senso unico.        Ero emozionata, ma decisa…, di dover rispondere ad un invito del Signore.

Come primo giorno, fui mandata con Don Antonio, un Cappellano del carcere, per una Celebrazione Liturgica. Camminando verso la Cappella, il Sacerdote mi disse che andavamo nel reparto G.12, quello dei criminali… Mi suggerì di non pensare mai al reato che ciascuno poteva aver commesso, ma di guardare ognuno come li guarda Gesù e di accoglierli, come fratelli da amare…. Arrivarono in Cappella, tanti detenuti silenziosi e ordinati. Salutarono cortesemente il Prete e me sconosciuta, come se mi aspettassero, come un dono, perché ero andata alla loro Messa. Non mi fu difficile guardarli, sentirli fratelli ed esprimere amicizia.

Fu una messa speciale e partecipata: tutti pregavano, rispondevano, ascoltavano, riflettevano, si alzavano, si inginocchiavano…come la Liturgia richiede.

Il primo colloquio in carcere fu con Andrea, 21 anni, proveniente dal carcere di Camerino. Arrivò nella stanzetta, dove io l’aspettavo, piuttosto emozionato, nervoso, angosciato…Guardava per terra e non parlava… Lo salutai delicatamente, mi feci vicina stringendogli le mani fredde e tremanti e mi presentai…. Quando sentii che ero nativa del Comune di Matelica, alzò lo guardò, si incoraggiò e mi chiese: Come mai hai pensato a me? Io aspettavo qualcuno che mi chiamasse per poter parlare…e tu sei venuta….chi ti ha mandato?…

Andrea stava vivendo l’esperienza punitiva dell’isolamento e lo sciopero della fame, per farla finita…

Iniziò a parlarmi della paura del terremoto, che visse chiuso in cella, dell’angoscia per la sua famiglia, perché non aveva avuto ancora nessuna notizia, del viaggio notturno che lo portò al Rebibbia, della sua profonda sofferenza e delle sue ultime decisioni…  L’ascoltai per tutto il tempo che aveva bisogno di parlare,….teneva a memoria solo il numero cellulare della mamma, per permettermi di poterla poi chiamare e avere notizie. Infine Andrea mi abbracciò forte e chiese: Quando torni a portarmi le notizie di mamma? Ci scambiammo gli impegni…  Con Andrea ho conosciuti i nomi e i volti di tanti altri detenuti, con storie diverse, ma somiglianti nella sofferenza e nel bisogno di essere chiamati, accolti, ascoltati e desiderosi di avere notizie delle famiglie.

Nel tempo in cui ascolto e parlo con un Detenuto non mi interessa sapere che cosa ha fatto, perché è finito qui; non è questo il mio compito…lo lascio a chi è di dovere. Io l’ascolto come Persona: sono lì impegnata, più ad accogliere e a prestare attenzione, che a parlare.     E’di questo che hanno bisogno !…

Sono tanti i Detenuti, sono tanti coloro che fanno domanda per un colloquio con una volontaria, sono tanti i loro bisogni materiali e spirituali… due giorni alla settimana, per me, è ben poco, è come una goccia d’acqua nel mare!… Per ogni Volontario è sempre troppo poco, pur sempre tanto necessario…

Più i giorni, le settimane, i mesi passano, più sento l’urgenza di non mollare mai, di fronte al poco tempo materiale, alla fatica, al freddo, al caldo,…. E’ poco quello che mi è permesso fare per i detenuti, ma ci sono per ascoltare, amare, portare Speranza, Pregare insieme….questi sono i compiti propri del Volontario e di questo ne hanno tutti sempre tanto bisogno.

Cerco di essere quella mano tesa che porta l’Amore, la Speranza e la Misericordia di Gesù, quella voce che condivide e unisce il Detenuto con la propria famiglia per sollevarli dalle loro solitudini, sofferenze, disperazioni….

Al Carcere Rebibbia ho incontrati tanti Detenuti dai 19 ai 60 anni circa, italiani, stranieri, cristiani, ortodossi , musulmani …. ho accolto e ascoltato ciascuno come un fratello, che ha sbagliato, alcuni forse alla grande, altri meno…altri ancora… forse sono innocenti…I primi riconoscono i loro sbagli, si vergognano, sono pentiti e consapevoli che stanno pagando il male fatto. Quelli che pensano di essere innocenti, aspettano la giustizia, la verità, la libertà…Molti vivono con ansia, perché non sanno nulla dei propri cari, dei propri ammalati, sono preoccupati per i loro figli, per il loro lavoro, per il loro avvenire… Se non vengono chiamati, ascoltati, accompagnati, incoraggiati, consolati… perdono la Speranza di riacquistare la libertà,perché non si sentono capiti, nè rispettati come persone….,… cresce in loro il nervosismo, la disperazione, la sete di vendetta….

Molti ancora soffrono per solitudine, per mancanza di denaro, di indumenti intimi e per proteggersi dal freddo, per mancanza di cure indispensabili, di avvocati solleciti ed onesti…tutto ciò perché molti non hanno né famiglia, nè parenti vicini… pertanto non ricevono visite, si sentono abbandonati, numeri, insignificanti…

A volte qualcuno pensa di scrivere una lettera per iniziare una relazione, per il desiderio che qualcuno si ricordi di loro, lo possa ascoltare e gli possa rispondere, ma…sembra strano a noi liberi: molti detenuti mancano anche di una penna per scrivere, di un foglio, di una busta con francobollo, spesso anche della memoria per ricordare un solo indirizzo di una persona cara. Tanti desiderano ricevere uno scritto da un familiare, da un amico… di condividere con persone amiche! Sono consapevoli, che il volontario può fare poco per loro, ma aspettano da noi di essere accolti, ascoltati e vicini per condividere il loro malessere, i loro bisogni materiali e spirituali, per Pregare e per leggere la Parola di Dio insieme a loro, per ascoltare una buona parola, per ricevere un consiglio, una corona, un libro, …  Ogni volta mi aspettano con tanta pazienza, si preoccupano se per un po’ di giorni non mi vedono arrivare, mi chiedono incessantemente di non dimenticarli… La visita del Volontario è sempre attesa; per loro è un segno di amore, di vicinanza, di speranza per condividere le loro attese…

I Detenuti in Carcere non cessano di essere uomini come noi, non cessano di essere Figli di Dio, non cessano di far parte di una Famiglia, di una Parrocchia, di una Diocesi… della Chiesa Universale. Dimenticare i loro nomi, le loro presenze, significa mutilare il Corpo di Cristo di alcune sue membra malate, come lo siamo noi.

Il Carcere è veramente il luogo dove i reclusi fanno esperienza di violento isolamento, di rinunce continue, di pazienza certosina, di lunghe attese…nonchè di condivisione fra i compagni di cella, di ricerca di Dio e di significato per dare vero senso alla loro vita futura…

Incontrare, ascoltare, pregare, seguire, entrare nella vita del Detenuto, sono esperienze forti di partecipazione, di compassione, di consapevolezza che sono “fratelli che mi appartengono”

Ogni volta che torno in carcere, sono motivata e sicura di camminare in Compagnia di Gesù per rispondere ad un suo invito “và e sii strumento del mio Amore e della mia Misericordia” (cfr:Ger 1,7-9)

”Ti basta la mia Grazia. La mia potenza si manifesta pienamente nella debolezza” (2 Corinti 12,9)

Dopo ore di colloqui in Carcere, torno in Comunità stanca, ma più ricca di umanità, di Misericordia, di consapevolezza delle mie fragilità di fronte a situazioni umanamente impossibili da risolvere.

Sento più forte la necessità di Pregare per quanti ho incontrato nella sofferenza e di offrire le mie fatiche quotidiane, che messe a confronto con chi vive dietro le sbarre, sono sempre insignificanti.

Attingo il coraggio necessario nella fede, nella Preghiera, nella presenza di Gesù vivo, sempre vicino che mi ripete: “vai, non avere paura! Io sono sempre con te!”(Mt28,19-20)