9. Maria, prima missionaria del vangelo

Fratelli tutti – Capitolo ottavo: Le religioni al servizio della fraternità nel mondo (271-287)

Oggi nel brano di Vangelo che la liturgia ci propone incontriamo uno spirito impuro chiamato “legione”. Legione è un gruppo militare romano composto da 6000 soldati e 120 cavalieri. È una moltitudine. Quante voci risuonano in noi, spesso l’una in conflitto con l’altra. I nostri desideri, le nostre aspirazioni, i nostri doveri, quello che gli altri si aspettano, quello che dice la ragione, quello che dice il cuore … Gesù è venuto a fare unità. Fuori e dentro di noi. Solo con questa unità nel cuore e tra di noi possiamo essere veri annunciatori del Vangelo.

Come uomini e donne di fede abbiamo ricevuto un dono immenso di cui non potremo mai finire di ringraziare. La fede in Dio. Ma questo dono è una grande responsabilità. Come lo è stato il dono della creazione di fronte alla quale Adamo ed Eva sono stati posti. Come lo è stato la promessa fatta ad Abramo e poi rinnovata di generazione in generazione con tutti i suoi discendenti fino a noi. Come lo è stato per Mosè la chiamata a condurre il popolo verso la libertà dalla schiavitù dell’Egitto. Come lo è stato, per tutti i credenti il dono di Cristo che non cessa “ogni giorno di venire a noi in umili apparenze; e ogni giorno discende dal seno del Padre (Gv 1,18; 6,38) sull’altare nelle mani del sacerdote”. (S. Francesco d’Assisi, Ammonizione I, FF 141-145).

Nell’ultima parte dell’enciclica Papa Francesco, che come ha specificato nel corso della sua lettera, scrive a tutti gli uomini di buona volontà, si rivolge in particolare a tutti i credenti e ha come tema “Le religioni poste al servizio della fraternità nel mondo”.  E dunque fa appello in modo specifico a tutti i credenti in Dio.

La religione è stata definita nel secolo scorso “oppio dei popoli”. Abbiamo, da credenti, la profonda consapevolezza che la religione è la coscienza dei popoli.

Dobbiamo dire, con forza e con fede, che “non ci possono essere ragioni solide e stabili per l’appello alla fraternità, senza un’apertura al Padre di tutti […]. Soltanto con questa coscienza di figli che non sono orfani si può vivere in pace fra noi” (FT 272).

Come pure dobbiamo riconoscere che «tra le più importanti cause della crisi del mondo moderno vi siano una coscienza umana anestetizzata e l’allontanamento dai valori religiosi, nonché il predominio dell’individualismo e delle filosofie materialistiche che divinizzano l’uomo e mettono i valori mondani e materiali al posto dei principi supremi e trascendenti» (FT 275).

Non è possibile che quando si tratta di dibattere pubblicamente sull’uomo e sulle questioni che lo riguardano, soprattutto quelle che implicano domande profonde, questioni serie, intervengano solo “potenti e scienziati” come se una riflessione a partire dai valori religiosi che costituiscono la tradizione dell’umanità fin dal suo sorgere, fossero da considerare espressioni di oscurantismo o bigottismo. E non è neppure possibile pensare di “rinchiudere” la fede in un ambito strettamente personale. “La Chiesa […] non relega la propria missione all’ambito privato” (FT 276). La Chiesa, e tutti i cristiani, in quanto cristiani, ha un ruolo pubblico. Non nel senso che i ministri religiosi debbano fare politica partitica, ma nemmeno che debba rinunciare alla dimensione politica dell’esistenza. La Chiesa ha un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione ma che si adopera per la promozione dell’uomo e della fraternità universale, come già ci ricordava papa Benedetto (cfr FT 276).

“Il culto a Dio, sincero e umile” è una ricchezza per l’umanità. Costruisce rapporti, crea fraternità, promuove l’attenzione agli ultimi e quindi costruisce una società più degna e civile, più rispettosa, più sana.

Purtroppo i fanatismi religiosi hanno portato molti a ritenere la religiosità un pericolo per la civiltà. In realtà si tratta di pensieri religiosi deviati, di una religione strumentalizzata perché “Il culto a Dio, sincero e umile, porta non alla discriminazione, all’odio e alla violenza, ma al rispetto per la sacralità della vita, al rispetto per la dignità e la libertà degli altri e all’amorevole impegno per il benessere di tutti” (FT 283).

Di questa dimensione della vita, di questo sguardo sull’esistenza siamo debitori al mondo. Gli uomini e le donne del nostro tempo hanno bisogno “della musica del Vangelo” e se “la musica del Vangelo smette di suonare nelle nostre case, nelle nostre piazze, nei luoghi di lavoro, nella politica e nell’economia, avremo spento la melodia che ci provocava a lottare per la dignità di ogni uomo e donna” (FT 276).

E alla fine di questa enciclica Papa Francesco ripropone l’appello alla pace, alla giustizia e alla fraternità sottoscritto ad Abu Dhabi il 4 febbraio 2019 insieme al Grande Imam Ahmad Al-Tayyeb. Un impegno solenne che dovrebbe accompagnarci ogni giorno: “Dichiariamo di adottare la cultura del dialogo come via, la collaborazione comune come condotta, la conoscenza reciproca come metodo e criterio” (FT 285). In questo consiste quell’artigianato della pace di cui ci ha parlato nel capitolo precedente Papa Francesco: unire e non dividere, estinguere l’odio e non conservarlo, aprire vie di dialogo e non innalzare nuovi muri.

Siamo invitati, come Maria, la Madre di Gesù, ad “essere una Chiesa che serve, che esce di casa, che esce dai suoi templi, dalle sue sacrestie, per accompagnare la vita, sostenere la speranza, essere segno di unità […] per gettare ponti, abbattere muri, seminare riconciliazione” (FT 276).

Maria è nostra Madre in questo cammino di fraternità. “Ella ha ricevuto sotto la Croce questa maternità universale (cfr Gv 19,26) e la sua attenzione è rivolta non solo a Gesù ma anche al «resto della sua discendenza» (Ap 12,17). Con la potenza del Risorto, vuole partorire un mondo nuovo, dove tutti siamo fratelli, dove ci sia posto per ogni scartato delle nostre società, dove risplendano la giustizia e la pace”. (FT 278).

Allora invochiamo insieme: Maria, prima missionaria del Vangelo, prega per noi.

8. Maria, donna della riconciliazione e del perdono

Fratelli tutti – Capitolo settimo: Percorsi di un nuovo incontro (225-270)

Stiamo ormai avviandoci alla conclusione del nostro viaggio. In questa novena abbiamo cercato di cogliere le sollecitazioni di Papa Francesco a sognare, ad aspirare ad una umanità capace di fraternità. Non solo: siamo stati invitati a fare piccoli ma decisivi passi verso la costruzione di un mondo fraterno, dove ogni uomo e donna, riconosciuti nella loro dignità, possano chiamarsi ed essere veramente fratelli. Si tratta di pensare insieme e cominciare a realizzare un nuovo modo di vivere, veramente e finalmente umano.

Oggi il brano del vangelo ci ha fatto incontrare un uomo liberato, riconsegnato alla sua dignità. Nel luogo dove risuona la Parola, quest’uomo era abitato da altro. Era un uomo che aveva bisogno di essere liberato e l’incontro con Gesù porta questa liberazione, anche se non si tratta di un passaggio indolore. Papa Francesco, in questo penultimo capitolo, che ha per titolo “Percorsi di un nuovo incontro” ci invita a percorrere sentieri di liberazione profonda, ci consegna il compito di essere “artigiani di pace disposti ad avviare processi di guarigione e di rinnovato incontro con ingegno e audacia” (FT 225).

Certo c’è un livello istituzionale che coinvolge gli stati, le nazioni, che Papa Francesco definisce “una ‘architettura’ della pace, nella quale intervengono le varie istituzioni della società, ciascuna secondo la propria competenza, però c’è anche un ‘artigianato’ della pace che ci coinvolge tutti” (FT 231). Le logiche che sottostanno agli uni e agli altri processi, quelli istituzionali, come quelli personali, sono in fondo le stesse. I percorsi sono assimilabili.

Quello che dovrebbero fare i governi non è tanto diverso da quello che si fa o si dovrebbe fare in una famiglia. Lì “se uno ha una difficoltà, anche grave, anche quando ‘se l’è cercata’, gli altri vengono in suo aiuto, lo sostengono; il suo dolore è di tutti. […] Nelle famiglie, tutti contribuiscono al progetto comune, tutti lavorano per il bene comune, ma senza annullare l’individuo; al contrario, lo sostengono, lo promuovono. Litigano, ma c’è qualcosa che non si smuove: quel legame familiare. I litigi di famiglia dopo sono riconciliazioni. Le gioie e i dolori di ciascuno sono fatti propri da tutti. Questo sì è essere famiglia! Se potessimo riuscire a vedere l’avversario politico o il vicino di casa con gli stessi occhi con cui vediamo i bambini, le mogli, i mariti, i padri e le madri. Che bello sarebbe! Amiamo la nostra società, o rimane qualcosa di lontano, qualcosa di anonimo, che non ci coinvolge, non ci tocca, non ci impegna?” (FT 230).

Questi percorsi implicano di fare i conti con tre parole: verità,  giustizia e misericordia

Perché si fanno le guerre? Quelle “macro” e quelle “micro”? Perché sorgono i conflitti? Perché più facilmente chiusure, odi, rancori, risentimenti, dominano le relazioni tra le persone, piuttosto che dialogo, aiuto reciproco, incontro, rispetto? Questa è la nostra esperienza. Dobbiamo semplicemente dire: è sempre stato così e sempre sarà così? Da che mondo è mondo il più forte prevale e il più debole soccombe? Sottolinea Papa Francesco: “Alcuni […] ritengono che il conflitto, la violenza e le fratture fanno parte del funzionamento normale di una società. Di fatto, in qualunque gruppo umano ci sono lotte di potere più o meno sottili tra vari settori”. (FT 236)

Fare verità vuol dire opporsi a questa mentalità e riconoscere le responsabilità del male. Occorre ricominciare dalla verità. Quando ci sono state delle ferite, dei conflitti, “nuovo incontro non significa tornare a un momento precedente ai conflitti. Col tempo tutti siamo cambiati. Il dolore e le contrapposizioni ci hanno trasformato” (FT 226). Occorre fare verità. Se io ho ferito devo dire: “E’ colpa mia. Scusa”. Chi ha sofferto ha il diritto di sapere il perché, ha il diritto che venga detta la verità, che venga fatta verità. E chi è responsabile venga riconosciuto come tale e venga applicata una giustizia “giusta”, che impedisca a chi ha leso diritti di continuare a farlo e risarcisca le vittime nel giusto e proporzionato modo. Il mancato riconoscimento dei colpevoli uccide le vittime due volte.

Le ferite non rimarginate, i conflitti non risanati impediscono la pace e degenerano spesso nel dramma delle guerre che da sempre lacerano l’umanità e che sono in corso anche oggi, in quella forma così strisciante definita proprio da Papa Francesco già nel 2014, in occasione del centenario dell’inizio della prima guerra mondiale, e qui ripresa, una “guerra mondiale a pezzi” (FT 259).

“Nel nostro mondo ormai non ci sono solo “pezzi” di guerra in un Paese o nell’altro, ma si vive una “guerra mondiale a pezzi”, perché le sorti dei Paesi sono tra loro fortemente connesse nello scenario mondiale”. (n. 259). La guerra, a tutti i livelli, non è mai una soluzione. La guerra è sempre una sconfitta per tutti per il carico di distruzione e di morte che portano con se.

La soluzione ai conflitti non sono le guerre, sono i processi di pace. “Il processo di pace […] è un lavoro paziente di ricerca della verità e della giustizia, che onora la memoria delle vittime e che apre, passo dopo passo, a una speranza comune, più forte della vendetta” (FT 226). L’alternativa a questi processi sono l’odio e il risentimento che si radicano e incancreniscono.

E il perdono? E la misericordia? Sappiamo bene che questo è il nostro punto di arrivo. Il vangelo ci chiede di perdonare “fino a settanta volte sette” e Gesù “ha condannato apertamente l’uso della forza per imporsi agli altri” (FT 238). Ma perdonare non è dimenticare. È ricordare, amare e andare avanti. Il cristiano non è uno che fugge i conflitti, che fa finta che non sia successo nulla ma è uno che sa stare davanti alla conflittualità della storia, la propria come quella dei popoli, senza fomentare odio e vendetta. Il perdono non è resa al male come consolazione di chi è debole. È rifiuto dell’odio e della vendetta in nome dell’amore.

Quello della pace è un processo che deve portare sì alla riconciliazione, ma quella vera, quella cioè che “non rifugge dal conflitto, bensì si ottiene nel conflitto, superandolo attraverso il dialogo e la trattativa trasparente, sincera e paziente” (FT 244). 

“Se un delinquente ha fatto del male a me o a uno dei miei cari, nulla mi vieta di esigere giustizia e di adoperarmi affinché quella persona – o qualunque altra – non mi danneggi di nuovo né faccia lo stesso contro altri. Mi spetta farlo, e il perdono non solo non annulla questa necessità bensì la richiede. Ciò che conta è non farlo per alimentare un’ira che fa male all’anima della persona e all’anima del nostro popolo, o per un bisogno malsano di distruggere l’altro scatenando una trafila di vendette. Nessuno raggiunge la pace interiore né si riconcilia con la vita in questa maniera. La verità è che «nessuna famiglia, nessun gruppo di vicini, nessuna etnia e tanto meno un Paese ha futuro, se il motore che li unisce, li raduna e copre le differenze è la vendetta e l’odio. Non possiamo metterci d’accordo e unirci per vendicarci, per fare a chi è stato violento la stessa cosa che lui ha fatto a noi, per pianificare occasioni di ritorsione sotto forme apparentemente legali». Così non si guadagna nulla e alla lunga si perde tutto.” (FT 241-242).

E ognuno di noi porta una propria guerra nel cuore. Di lì bisogna cominciare per portare la pace.

“Occorre riconoscere nella propria vita che quel giudizio duro che porto nel cuore contro mio fratello o mia sorella, quella ferita non curata, quel male non perdonato, quel rancore che mi farà solo male, è un pezzetto di guerra che porto dentro, è un focolaio nel cuore, da spegnere perché non divampi in un incendio” (FT 243).

Il perdono richiede una grande maturità, umana e cristiana. Noi dovremmo essere esperti di perdono, prima ricevuto e poi donato. Il fare verità in noi, l’assumerci la nostra responsabilità, il fare giustizia, il non fomentare odio e vendetta, il chiedere scusa sono i passi in fondo della confessione sacramentale, di quella misericordia che il Signore usa nei nostri confronti e che è capace, con il dono del perdono, di farci rinascere ogni volta dalla morte del peccato alla vita nuova in Cristo. Di questo perdono noi siamo debitori verso i nostri fratelli.

Gesù oggi nella sinagoga non scaccia l’uomo. Distingue l’uomo dal male che lo abita. In tutto il vangelo, Gesù denuncia il male ma salva l’uomo, libera l’uomo, accoglie l’uomo, ama l’uomo. Ridona all’uomo la sua dignità, che non va mai dimenticata. Prima del giudizio, della condanna, della pena, della difesa, c’è un uomo con la sua dignità perduta. Questo è scegliere la pace, accogliere l’invito ad essere “artigiani di pace”.

Oggi invochiamo Maria, donna del perdono. Il vangelo non ci consegna nessuna parola violenta di Maria, mai. Ma Maria prende posizione. Sta con il Figlio e sta con la comunità dei discepoli. Sta davanti al male, nel conflitto. Sta, come stette presso la croce del Figlio, perché non si spenga il fuoco dell’amore. Invochiamo per sua intercessione, da Dio, il dono della pace. Facciamolo con le parole stesse di papa Francesco:

“Chiedo a Dio «di preparare i nostri cuori all’incontro con i fratelli al di là delle differenze di idee, lingua, cultura, religione; di ungere tutto il nostro essere con l’olio della sua misericordia che guarisce le ferite degli errori, delle incomprensioni, delle controversie; la grazia di inviarci con umiltà e mitezza nei sentieri impegnativi ma fecondi della ricerca della pace»” (FT 254)

E invochiamo insieme: Maria, donna della riconciliazione e del perdono, prega per noi.

7. Maria, donna del silenzio

Fratelli tutti – Capitolo sesto: Dialogo e amicizia sociale (198-224)

Chi è dunque costui? Si chiedono i discepoli. Sono i suoi discepoli ma ancora non lo conoscono. Sono in cammino … molte traversate dovranno ancora fare, come noi, per arrivare a capire, toccare qualcosa di questo Maestro, che è molto di più di un maestro.

In fondo papa Francesco cerca di farci passare all’altra riva: da un mondo che sta andando alla deriva ad un mondo di fratelli, un mondo che corrisponda alla sua vocazione originaria, un luogo che accolga la vita e generi vita. La traversata, per i discepoli di Gesù, avviene utilizzando una barca. Questa barca è immagine della Chiesa, lo sappiamo. La barca che il papa ci invita ad utilizzare, in un certo senso per passare all’altra riva che è quello della fraternità e della amicizia sociale, è quella del dialogo. “Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare”. E il dialogo è molto più che parlare. Vale la pena ascoltare tutto il primo numero di questo sesto Capitolo della Fratelli tutti: “Avvicinarsi, esprimersi, ascoltarsi, guardarsi, conoscersi, provare a comprendersi, cercare punti di contatto, tutto questo si riassume nel verbo “dialogare”. Per incontrarci e aiutarci a vicenda abbiamo bisogno di dialogare. Non c’è bisogno di dire a che serve il dialogo. Mi basta pensare che cosa sarebbe il mondo senza il dialogo paziente di tante persone generose che hanno tenuto unite famiglie e comunità. Il dialogo perseverante e coraggioso non fa notizia come gli scontri e i conflitti, eppure aiuta discretamente il mondo a vivere meglio, molto più di quanto possiamo rendercene conto” (FT 198).

Eppure spesso noi confondiamo “il dialogo con qualcosa di molto diverso: un febbrile scambio di opinioni nelle reti sociali, molte volte orientato da un’informazione mediatica non sempre affidabile. Sono solo monologhi che procedono paralleli, forse imponendosi all’attenzione degli altri per i loro toni alti e aggressivi. Ma i monologhi non impegnano nessuno, a tal punto che i loro contenuti non di rado sono opportunistici e contraddittori” (FT 200).

“L’autentico dialogo sociale presuppone la capacità di rispettare il punto di vita dell’altro accettando la possibilità che contenga delle convinzioni o degli interessi legittimi” (FT 203). Questo vuol dire che nel dialogo prima viene il mettersi in ascolto e poi viene il dire la propria opinione, per esempio. Vuol dire anche non presumere di “avere la verità in tasca” ma di essere, tutti, in cammino verso la verità, e proprio nel dialogo, nella apertura all’altro, nel confronto franco e sincero, nella paziente tessitura di relazioni, nella riflessione su quanto ascoltato e nella meditazione attenta di quanto si esprime, si arriva a comprendere qualcosa di più della verità.

Nel dialogo non si guarda ai consensi, ma si cerca la verità. Allora io deve credere che ci sia una verità, che non sia tutto “relativo”. Qualche anno fa si cantava una canzone che ebbe molto successo … una sorta di tormentone: “Dipende, tutto dipende, da che punto guardi il mondo, tutto dipende”… c’è una verità che è ciò che risponde alla nostra realtà più profonda” (FT 207), è “la ricerca dei fondamenti più solidi che stanno alla base delle nostre scelte e delle nostre leggi” (FT 208). È “accettare che ci sono alcuni valori permanenti, benchè non sia sempre facile riconoscerli” (FT 211). E il dialogo, “in una società pluralista, è la via più adatta per arrivare a riconoscere ciò che dev’essere sempre affermato e rispettato, e che va oltre il consenso occasionale” (FT 211). Detto concretamente: ciò che è bene e ciò che è male non lo definiscono i like su you tube o sugli altri social. “I valori vanno al di là dei consensi” perché “li riconosciamo come valori che trascendono i nostri contesti e mai negoziabili” (FT 211). Il dialogo serve appunto per giungere alle “verità fondamentali che devono e dovranno sempre essere sostenute” (FT 211).

Il fondamento di queste verità è il Vangelo. Ma il fondamento di queste verità è iscritto in quel “profondamente umano” che c’è in ciascuno di noi. “Nella realtà stessa dell’essere umano e della società, nella loro natura intima, vi è una serie di strutture di base che sostengono il loro sviluppo e la loro sopravvivenza” (FT 212). Per questo è possibile un dialogo con tutti se c’è questa ricerca di verità. Per questo papa Francesco ha sottoscritto il DOCUMENTO SULLA FRATELLANZA UMANA PER LA PACE MONDIALE E LA CONVIVENZA COMUNE ad Abu Dhabi, il 4 febbraio 2019, insieme al Grande Imam di Al-Azhar Ahmad Al-Tayyeb.

Attenzione ai consensi. Abbiamo già visto tante volte nella storia quanti drammi si sono consumati appoggiandosi sui consensi. A “maggioranza” sono stati votati e approvati provvedimenti contro l’uomo e la sua verità e non è il consenso che li possa rendere corrispondenti alla verità dell’uomo. “Già abbiamo in abbondanza prove di tutto il bene che siamo capaci di compiere, però, al tempo stesso, dobbiamo riconoscere la capacità di distruzione che c’è in noi” (FT 209).

Si tratta, anche qui, di assumere uno stile di vita fondato sul dialogo, sull’apertura, sull’incontro con l’altro. Anche papa Francesco cita una canzone popolare brasiliana che dice: “La vita è l’arte dell’incontro, anche se tanti scontri ci sono nella vita”. A me viene in mente un nostro detto romagnolo: “Duc us magna us ragna”. Questo stile di vita fa più ricca la nostra vita perché ci fa cogliere la realtà nelle sue molteplici sfaccettature, nelle sue mille sfumature. “Da tutti, infatti, si può imparare qualcosa, nessuno è inutile, nessuno e superfluo.

Ciò implica includere le periferie. Chi vive in esse ha un altro punto di vista, vede aspetti della realtà che non si riconoscono dai centri di potere dove si prendono le decisioni più determinanti” (FT 215).

La capacità di dialogare non si improvvisa. Non per niente si usa l’espressione: “Tessere dialoghi”. Chi ha usato i telai sa che per tessere ci vuole tempo, filo dopo filo, intreccio dopo intreccio, nodo dopo nodo. “Integrare le realtà diverse è molto […] difficile e lento, eppure è la garanzia di una pace reale e solida” (FT 217). Qualche anno fa la nostra famiglia religiosa ha deciso di aprire una presenza in Africa, in Mozambico. Un paese sconosciuto, una cultura lontana … quanto tempo, quanto dialogo, quanta pazienza per conoscere qualcosa, per comprendere, per entrare in quella realtà con rispetto. Quanti valori in quella storia, in quella terra, in quei volti. Che vanno rispettati. Quanta sofferenza, quanto sfruttamento, quanta dignità calpestata. Lo stesso era accaduto qualche anno prima con la nostra presenza in America Latina. Ci vuole rispetto, ci vuole attenzione. Ci vuole umiltà. Il rischio di essere dei “colonizzatori” è sempre in agguato.

Papa Francesco ci mette in guardia dalla tentazione che sempre abbiamo, in tutti campi, del tutto e subito. “Quello che conta è avviare processi di incontro, processi che possano costruire un popolo capace di raccogliere le differenze”. E per farci capire che questi processi sono lunghi, che ci vogliono generazioni perché cambi qualcosa ammonisce: “Armiamo i nostri figli con le armi del dialogo! Insegniamo loro la buona battaglia dell’incontro” (FT 217). Una battaglia che dobbiamo aver combattuto noi prima di loro, senza stancarci.

Imploriamo da Dio, per l’intercessione della Vergine, il dono della pace. Maria è donna del dialogo, a partire dalla capacità di accogliere l’altro nella sua diversità. Anche Gesù, probabilmente, non era quel figlio che aveva pensato. Anche lei ha dovuto attraversare le incomprensioni, le fatiche, il dolore di non capire sempre tutto. E ha ricevuto da Gesù figli che non aveva previsto. Nella traversata della vita, in mezzo alle tempeste, nelle difficoltà di comprendere l’altro, negli incontri e negli sconti che la vita ci riserva, chiediamo a lei, vergine del silenzio, la stessa capacità di aprirci all’altro nella disponibilità che solo l’amore dona al cuore. Nella comune ricerca di quella verità che è il fondamento non solo della nostra esistenza di credenti, ma dell’esistenza di ogni uomo fatto a immagine e somiglianza di Dio.

 Maria, donna del silenzio, prega per noi

6. Maria, madre dei credenti

Fratelli tutti – Capitolo quinto – : La migliore politica (154-197)

Quella del granello di senape è per me una delle immagini più commoventi della Sacra Scrittura. Mi commuove la piccolezza di questo seme che contiene in sé tutta la forza vitale che lo fa germogliare e crescere, una forza in grado di dare riparo a tutte le nazioni della terra (è questa l’immagine paradossale che il brano propone a chi ascolta).

Tante volte rischiamo di essere tentati di pensare che quello che facciamo non serve a molto, soprattutto di fronte agli scenari mondiali: cosa posso fare io per i problemi della fame nel mondo, delle carestie, delle catastrofi, della pandemia … delle ingiustizie…? Nelle mie azioni c’è la forza, la potenza, la grazia capace di generare vita, di generare processi che davvero cambiano il mondo.

Ma, certamente, come ricordavamo ieri, in questo mondo globalizzato e interconnesso, occorrono legislazioni globali, accordi tra i paesi, occorre allargare i confini del cuore e … degli stati. Così concludeva il capitolo che abbiamo considerato ieri: “Oggi nessuno Stato nazionale isolato è in grado di assicurare il bene comune della propria popolazione” (FT 153).

Che cosa occorre? “Per rendere possibile lo sviluppo di una comunità mondiale, capace di realizzare la fraternità a partire da popoli e nazioni che vivano l’amicizia sociale, è necessaria la migliore politica, posta al servizio del vero bene comune. Purtroppo, invece, la politica oggi spesso assume forme che ostacolano il cammino verso un mondo diverso” (FT 154).

Due aggettivi forti usa il papa: “migliore” politica e “vero” bene comune. Non dice, in prima battuta, “buona” politica quasi a dire che il pensiero di una “cattiva” politica non dovrebbe neanche essere preso in considerazione. Il politico è, per definizione, colui che si occupa del bene comune (Aristotele ne ha dato la prima formulazione: è la amministrazione della “polis” per il bene di tutti) cioè viene incaricato di occuparsi del bene della collettività. Il cattivo politico semplicemente non è un politico: è un truffatore, è un arrivista, è un opportunista … Poi si possono avere idee diverse su come occuparsi del bene comune, su quali priorità bisogni avere, su quali vie siano le più opportune.

Ed ecco allora il secondo aggettivo: la politica deve essere al servizio del “vero” bene comune. C’è un “falso” bene comune? Si. è quello che accetta che ci siano degli “scarti”. È quello che ci fa credere che non si possa stare bene tutti, vivere dignitosamente tutti, vedere rispettati i diritti di tutti. “Mors tua, vita mea” recita un antico adagio di origine medioevale al quale ci siamo tragicamente abituati. Il progresso ha le sue vittime. Non importa chi siano. L’importante è andare avanti.

Il vero bene comune è quello che si ricerca nella realizzazione di “un mondo aperto dove ci sia posto per tutti, che comprenda in sé i più deboli e rispetti le diverse culture” (FT 155).

Il falso bene comune è quello che si nasconde dietro formule populistiche cioè modi di dire e di comportarsi che “accarezzano” le richieste della gente, fomentano malcontenti, accontentano con zuccherini come si fa con i cavalli perché siano docili, ma intanto ledono i diritti per esempio dei più deboli, di quelli che non hanno voce in capitolo (nel capitolo precedente il Papa aveva messo l’accento sui disabili e sugli anziani per esempio, oltre che sugli immigrati).

Sono questi atteggiamenti “politici” che ci hanno fatto perdere la stima nella politica. “Per molti la politica oggi è una brutta parola, e non si può ignorare che dietro questo fatto ci sono spesso degli errori, la corruzione, l’inefficienza di alcuni politici. […] E tuttavia, può funzionare il mondo senza politica? Può trovare una via efficace verso la fraternità universale e la pace sociale senza una buona politica?” (FT 176).

La buona politica è quella che si esprime come “carità politica” cioè la carità proposta come programma politico per eccellenza. La carità, proprio quella evangelica, quella che Gesù ci ha consegnato nel suo unico comandamento: “Amatevi gli uni gli altri come io vi ho amato” (cfr Mt 22,36-40). La carità non è un fatto individualistico e privato. Quello è “sentimentalismo”, ma non fede. “L’amore, pieno di piccoli gesti di cura reciproca, è anche civile e politico, e si manifesta in tutte le azioni che cercano di costruire un mondo migliore” (FT 181).

Papa Francesco ce lo fa capire con un esempio semplicissimo: “È carità stare vicino a una persona che soffre, ed è pure carità tutto ciò che si fa, anche senza avere un contatto diretto con quella persona, per modificare le condizioni sociali che provocano la sua sofferenza. Se qualcuno aiuta un anziano ad attraversare un fiume – e questo è squisita carità –, il politico gli costruisce un ponte, e anche questo è carità. Se qualcuno aiuta un altro dandogli da mangiare, il politico crea per lui un posto di lavoro, ed esercita una forma altissima di carità che nobilita la sua azione politica” (FT 186).

Leggendo queste parole forse pensiamo: sarebbe così semplice e conseguente alla nostra fede. “Sarebbe …”. Sappiamo che non lo è. Non lo è personalmente, fare gesti di carità. Non lo è politicamente. Ci vogliono generosità e coraggio (Cfr FT 174), bisogna riconoscere che abbiamo bisogno di cambiare il nostro cuore, le nostre abitudini, i nostri stili di vita (cfr FT 166). In una parola, che a noi cristiani dovrebbe essere molto famigliare, dobbiamo dire che abbiamo bisogno di conversione perché c’è in noi “una tendenza costante all’egoismo” (FT 166) che in linguaggio cristiano si chiama “concupiscenza”, che “è l’inclinazione dell’essere umano a chiudersi nell’immanenza del proprio io, del proprio gruppo, dei propri interessi meschini” (FT 166). Ci riguarda tutti. E non è una invenzione dei tempi moderni. Si presenta in forme diverse … ma è sempre la stessa cosa. “Però è possibile dominarla con l’aiuto di Dio” (FT 166). Bisogna educarsi: abitudini solidali, capacità di pensare la vita umana più integralmente, la profondità spirituale … questo ci serve per dare spessore e profondità ai rapporti umani per arrivare ad un sentire comune che sappiamo orientare tutti al bene.

Dobbiamo aver cura che le nostre istituzioni siano realmente efficaci nella lotta contro tutti i flagelli che affliggono l’umanità. (Cfr FT 188):

Dobbiamo avere cura che nella politica, come nella nostra vita, non si spenga la tenerezza, che “è l’amore che si fa vicino e concreto” (FT 194). E “non sempre si tratta di ottenere grandi risultati, che a volte non sono possibili […]. Se riesco ad aiutare una sola persona a vivere meglio, questo è già sufficiente a giustificare il dono della mia vita. È bello essere popolo fedele di Dio” (FT 195).

Noi siamo popolo fedele di Dio. Siamo Chiesa, “segno e strumento dell’amore di Dio”, abbiamo pregato nella colletta iniziale. Chiediamoci, accogliendo l’invito di Papa Francesco, e facendo memoria della nostra vita: “Quanto amore ho messo nel mio lavoro? In che cosa ho fatto progredire il popolo? Che impronta ho lasciato nella vita della società? Quali legami reali ho costruito? Quali forze positive ho liberato? Quanta pace ho seminato? Che cosa ho prodotto nel posto che mi è stato affidato?” (FT 197).

E affidiamoci a Maria, immagine e madre della Chiesa. Lei non ha fatto politica, ma si è occupata del vero “bene comune” per eccellenza, di Gesù. Lo ha accolto e lo ha consegnato. Ha fatto della sua vita uno spazio di incontro tra l’uomo e Dio. Con umiltà, con sacrificio, con disponibilità totale, senza cercare nessuna visibilità.

Oggi la invochiamo: Maria, madre dei credenti prega per noi.

5. Maria, donna dell’ascolto

Fratelli tutti – Capitolo quarto – Un cuore aperto al mondo intero (128-153)

 “Come essere umani siamo tutti fratelli e sorelle”. Se questa affermazione “non è solo un’astrazione ma prende carne e diventa concreta, ci pone una serie di sfide che ci smuovono, ci obbligano ad assumere nuove prospettive e a sviluppare nuove risposte” (FT 128).  In questo quarto capitolo, che porta il titolo “Un cuore aperto al mondo intero”, papa Francesco affronta un tema complesso, che certamente egli non pretende di risolvere in poche pagine, con il suo documento. Ma intende porre delle questioni molto serie sulle quali riflettere, alla luce di tutto quanto sottolineato nei numeri precedenti. “Farsi prossimo”, lo abbiamo capito, è quello che ci chiede il Vangelo. E noi vogliamo viverlo, cerchiamo di viverlo altrimenti non saremmo qui.

“Quando il prossimo è una persona migrante si aggiungono sfide complesse” (FT 129). È bello che papa Francesco parli di “sfida” e non di “problema” riguardo ai migranti.

Sappiamo bene che la cosa più desiderabile per ogni persona sarebbe che nessuno fosse costretto a lasciare la propria terra. Ognuno dovrebbe poter vivere e crescere dignitosamente, ma anche di più, realizzare le sue aspirazioni, i suoi sogni, nel proprio paese di origine. Perché c’è anche il diritto di desiderare non solo di sopravvivere, non solo di soddisfare i propri bisogni primari, ma anche i propri sogni, le proprie più alte aspirazioni. E questo, in un mondo “globalizzato”, “evoluto”, “sviluppato” dovrebbe poter voler dire realizzare questo anche in altri paesi rispetto ai quali si è nati, in altre culture, attingendo a quella ricchezza di cui ogni popolo, nazione, civiltà è portatore. Credo che a nessuno di noi sia mai stato negato il permesso di andare da qualche parte, anche solo per turismo, per trovare qualcuno, per visitare qualcosa di questo nostro meraviglioso mondo. O di trovare accoglienza se ci volessimo trasferire da qualche parte. Pensiamo che sia un nostro diritto farlo e farlo venendo rispettati. Perché pensiamo questo? Perché sappiamo di non avere cattive intenzioni … perché sappiamo di poter pagare il nostro soggiorno …. Si presentano nella vita situazioni molto difficili. Lasciare la propria terra non è piacevole per nessuno. Farlo perché si è costretti o perché si desidera aspirazioni e sogni è legittimo e deve potersi fare.

E papa Francesco riprende e sintetizza quattro verbi per delineare l’azione verso  i migranti da parte di paesi che si fregiano del titolo di “democratici” e “civili”: accogliere, proteggere, promuovere e integrare.

Ognuno di essi è denso di significato, implica tutta una serie di azioni. Ma al fondo di tutti sta l’affermazione, ancora una volta, della inalienabile dignità di ogni essere umano. Da promuovere. Da riconoscere.

È chiaro altresì che tutto questo non lo può fare il singolo e basta, una città e basta, un comune e basta, neppure uno stato e basta. Questo ci mobilità a livello di comunità internazionale. Ci vuole una “legislazione globale per le migrazioni” (FT 132). Capiamo bene che tutto questo sfugge alle nostre competenze … e capacità. Capiamo però anche che è necessario seguire questa via. Non possiamo pensare di regolamentare a livello internazionale solo lo scambio delle merci. E i movimenti delle persone? Quanta maggiore attenzione. Quanta maggiore responsabilità. Perché lì c’è in gioco la dignità degli esseri umani e con essa, la cifra della nostra civiltà. Li c’è il distinguo tra una società civile, degna di questo nome, e una incivile.

E noi come ci entriamo in tutto questo?

Noi dobbiamo sentirci interpellare molto seriamente. Innanzitutto dalla Parola di Dio. Ci ricorda l’autore della lettera agli ebrei: “Non dimenticate l’ospitalità; alcuni, praticandola, senza saperlo hanno accolto degli angeli” (Eb 13,2).  Ed accogliere il forestiero è una delle opere di misericordia: “Ero straniero e mi avete accolto” (Mt 25,35).

Noi possiamo cominciare a cambiare il nostro sguardo. L’altro, soprattutto se è diverso .. per colore della pelle, per paese di provenienza, per credo religioso, non è un pericolo, non è un problema, non è uno da guardare con diffidenza … ma è un dono. Nell’incontro con l’altro c’è un arricchimento reciproco e vicendevole che può avvenire nel dialogo, nell’apertura, nella disponibilità che lascia da parte l’arroganza di credersi migliori, più evoluti, meno primitivi, più rispettosi delle leggi.

Quello che succede dall’altra parte del mondo, ci riguarda. Noi ci siamo troppo abituati a vedere la realtà attraverso la televisione. Certo, ci informa molto, i social ci danno possibilità inimmaginabili: sono fonte di informazione, quando viene fatto seriamente; ci permettono quasi il dono dell’ubiquità o comunque sono possibilità di accesso alla conoscenza e la conoscenza allarga gli spazi della partecipazione libera e della democrazia. Nei paesi dove sono in vigore forme di dittatura, la prima cosa che viene “controllata” o “censurata” è la libertà di stampa, sono i canali di informazione. Ma in tutto questo c’è anche un grande pericolo di alienazione della realtà. Tutto rischia di rimanere di là dallo schermo e noi pensiamo sempre di più: speriamo che resti lì. Facciamo in modo che resti lì. Ma non resta lì. Siamo tutti “interconnessi”, collegati. “Abbiamo bisogno di fare crescere la consapevolezza che oggi o ci salviamo tutti o non ci salviamo nessuno” (FT 137).

E abbiamo bisogno ancora di credere nella gratuità. Due giorni fa una persona mi ha detto: “Sto sperimentando che è vero quello che voi mi dite sempre: ci sono ancora persone buone”. Ci sono persone che fanno il bene senza aspettarsi niente in cambio, solo perché è bene fare il bene.

E infine, un ultimo aspetto. Papa Francesco ci consegna una piccola regola di vita, che poi tanto piccola non è: “Si lavora nel piccolo, con ciò che è vicino, però con una prospettiva più ampia” (FT 146). Si ama il proprio paese, la propria famiglia, la via dove si abita, il proprio condominio, la propria cerchia familiare, senza smettere “di lasciarsi interpellare da ciò che succede altrove, di lasciarsi arricchire da altre culture e solidarizzare con i drammi degli altri popoli” (FT 146). Ci vuole “un rapporto sano tra l’amore alla patria e la partecipazione cordiale all’umanità intera” (FT 149). Per fare questo occorre mettersi in ascolto dell’altro. Quando cominci a chiedere il nome al fratello che ti chiede una moneta, da dove viene, qual è la sua storia, se hai il coraggio, nell’amore, di sederti con lui a tavola o, come direbbe il Vangelo, di camminare con lui, allora quell’uomo per te si trasforma. Addirittura l’avversario diventa familiare. Non è più il povero o il “neretto” o l’extracomunitario, o colui di cui diffidare, ma ha un volto, un nome, una famiglia, una storia; comincia ad acquisire una dignità.

Ha scritto un filosofo statunitense: “Se gli uomini si conoscessero veramente fra loro non adorerebbero e non odierebbero”. (Elbert Hubbert)

È così sempre. L’uomo ha due orecchie e una bocca perché dovrebbe ascoltare il doppio di quanto parla, dicevano i filosofi greci. Ecco perché oggi vogliamo invocare Maria con il titolo di donna dell’Ascolto. Maria è il modello di chi accoglie la Parola di Dio e la mette in pratica. Sono poche le parole che abbiamo udito uscire dalle labbra di Maria. Maria ha accolto e fatto la volontà di Dio. Chiediamo anche noi al Signore per sua intercessione di aprire il nostro cuore alla beatitudine dell’ascolto, perché la nostra vita diventi luogo accogliente per ogni sorella e fratello che il Signore pone sulla nostra strada.

Maria, donna dell’ascolto, prega per noi.

4. Maria, madre della fraternità

Fratelli tutti – Capitolo terzo – Pensare e generare un mondo aperto (87-127)

La logica del Regno, il modo di pensare di Dio, di Gesù, quello al quale Gesù chiede ai suoi discepoli di convertirsi, è proprio piuttosto lontano dal nostro modo di pensare. Eppure Gesù oggi ci dice:” A voi è stato dato il mistero del regno di Dio”, cioè a voi è stata data la possibilità di entrare dentro il pensiero di Dio, addirittura il cuore di Dio, il suo modo di amare. Come un seme la sua Parola nei nostri cuori può essere germe )di un modo di guardare la vita, di vivere la vita, che il mondo “non conosce e non può conoscere” (Cfr Gv 14,7) ma, che a noi è stato donato di vivere.

Nel terzo capitolo della FT, nella conclusione di questo capitolo, scrive papa Francesco: “Senza dubbio si tratta di un’altra logica. Se non ci si sforza di entrare in questa logica, le mie parole suoneranno come fantasia” (FT 127). Si tratta della logica che sta alla base del “pensare e generare un mondo aperto”. E il mondo aperto, per Papa Francesco, ma lo possiamo dire, per il Vangelo, è il mondo dove si possa vivere, tutti da fratelli. Tutti: questa sottolineatura è molto importante. Il percorso che Papa Francesco ci propone per vivere il Vangelo è quello da fare per giungere a “sentirsi fratelli di tutti” (cfr FT 286) come dirà a conclusione del documento.

Partiamo da una constatazione, della quale non sempre sembriamo tanto consapevoli: “Un essere umano è fatto in modo tale che non si realizza, non si sviluppa e non può trovare la propria pienezza se non attraverso un dono sincero di sé” (FT 87). Io non sono felice, diremmo forse un po’ sbrigativamente, ma in un modo efficace, se prendo per me … io sono felice se mi dono … Per questo c’è vita “dove c’è legame, comunione, fratellanza; ed è una vita più forte della morte quando è costruita su relazioni vere e legami di fedeltà. Al contrario, non c’è vita dove si ha la pretesa di appartenere solo a sé stessi e di vivere come isole: in questi atteggiamenti prevale la morte”. (FT 87).

Dunque vivere da soli, o meglio vivere per sé è una via di morte. Nella nostra cultura popolare, che rischia di essere quella mentalità che condividiamo senza un minimo di criticità, ci sono una marea di proverbi che ci dicono il contrario: “Chi fa da sé fa per tre” …. “Non datemi consigli, so sbagliare da solo”. E ho travato questo particolarmente simpatico, anche se tragico: “Sant’arrangiati faceva miracoli anche mentre dormiva”.

NO. È proprio un’altra la prospettiva del vangelo che papa Francesco ci richiama. Il cammino della vita non deve condurci ad “imparare a fare da soli”, “ad arrangiarsi”, ma deve condurci ad imparare a vivere da fratelli. Imparare a vivere da fratelli è imparare ad amare. L’amore si impara. È un dinamismo, una forza che è dentro di noi, che è la carità che Dio infonde nei nostri cuori (Cfr FT 91). E si impara ad amare a piccoli passi. Piccoli ma concreti:

  • L’amore viene prima di tutto e amare è la nostra grandezza. Il valore di una persona non sta prima di tutto nelle idee che volentieri rischiamo di diventare ideologie; ma il valore di una persona è il fatto che ama (Cfr FT 92)
  • Mettere “l’attenzione sull’altro, considerandolo come un’unica cosa con sé stesso” (S, Tommaso citato in FT 93). “L’altro è un altro me” recita una canzone … e perciò mi è “caro”, lo considero di grande valore.
  • “L’amore all’altro per quello che è ci spinge a cercare il meglio per la sua vita (FT 94)
  • Allargare ogni giorno, un pochino di più, la cerchia per arrivare “a quelli che spontaneamente non sento parte del mio mondo di interessi, benché siano vicino a me” (FT 97)
  • Essere attenti agli “esiliati occulti”; a quelli cioè che sono sempre più dimenticati, i trasparenti della nostra società, mi verrebbe da dire. Papa Francesco cita due categorie di persone: i disabili e gli anziani (Cfr FT 98). Papa Francesco qui non lo cita esplicitamente, ma in tante altre occasioni ha ricordato nell’angelus del 6 maggio 2018:
    •  “L’amore per gli altri non può essere riservato a momenti eccezionali, ma deve diventare la costante della nostra esistenza. Ecco perché siamo chiamati, per esempio, a custodire gli anziani come un tesoro prezioso e con amore, anche se creano problemi economici e disagi, ma dobbiamo custodirli. Ecco perché ai malati, anche se nell’ultimo stadio, dobbiamo dare tutta l’assistenza possibile. Ecco perché i nascituri vanno sempre accolti; ecco perché, in definitiva, la vita va sempre tutelata e amata dal concepimento al suo naturale tramonto. E questo è amore”.
    • E nel discorso ai diplomatici accreditati presso la santa sede del 2018:
    • “Purtroppo, oggetto di scarto non sono solo il cibo o i beni superflui, ma spesso gli stessi esseri umani, che vengono ‘scartati’ come fossero ‘cose non necessarie’. Ad esempio, desta orrore il solo pensiero che vi siano bambini che non potranno mai vedere la luce”.
  • Passare dall’essere soci, su questa terra, all’essere fratelli (Cfr FT 101-105). Il socio sta insieme a te perché ha degli interessi. Vivere da soci ci permette una certa uguaglianza, ma solo tra quelli che appartengono alla cerchia di quella società. Il fratello invece sta accanto a te sempre, non perché gli conviene, non perché ha degli interessi. Sta accanto a te anche in perdita. L’individualismo ci fa soci. L’amore ci fa fratelli.

Tutto questo forse ci può riassumere in una espressione: dare dignità al fratello. Questo è il primo fondamento di pensare e generare un mondo aperto.

E l’altro a cui ci richiama papa Francesco è la condivisione dei beni. Questo mondo è stato dato a tutti. Se ogni uomo ha la stessa dignità allora tutti hanno il diritto di vivere su questa terra con i beni che essa offre. La condivisione, la solidarietà non fanno altro che manifestare la “destinazione comune dei beni creati” (FT 119). “Dio ha dato la terra a tutto il genere umano, perché essa sostenti tutti i suoi membri, senza escludere né privilegiare nessuno” scriveva San Giovanni Paolo II, che papa Francesco cita (FT 120). E questo ha delle conseguenze molto precise e pratiche nella vita privata come negli ordinamenti della vita sociale. Ne sottolineo uno tra i vari che Papa Francesco evidenzia: “Il diritto alla proprietà privata si può considerare solo come un diritto naturale secondario e derivato dal principio della destinazione universale dei beni creati, e ciò ha conseguenze molto concrete, che devono riflettersi sul funzionamento della società. Accade però frequentemente che i diritti secondari si pongono al di sopra di quelli prioritari e originari, privandoli di rilevanza pratica” (FT 120).

Certamente questo non vuol dire “anarchia” nel senso di “ognun per se e Dio per tutti”.. Vuol dire però avere delle gerarchie di valori. Vuol dire mettere i diritti fondamentali degli uomini e delle donne, di ogni uomo e di ogni donna al di sopra di tutti i diritti particolari: vuol dire che, per citare un altro dei principi fondamentali nei quali Papa Francesco in un certo senso riassume la dottrina sociale della Chiesa, illustrati nella Evangelii Gaudium: “Il tutto è più della parte, ed è anche più della loro semplice somma. Dunque, non si dev’essere troppo ossessionati da questioni limitate e particolari. Bisogna sempre allargare lo sguardo per riconoscere un bene più grande che porterà benefici a tutti noi” (EG 235).

Maria non ha fatto “da sola”. Oggi la invochiamo come Madre della fraternità. Nelle icone della Pentecoste Maria viene posta al centro della comunità dei discepoli, in preghiera con loro. Maria è lì, in mezzo alla fraternità, a vivere la fraternità. Lei che ha avuto da Dio tanti doni, Lei che invochiamo come la tutta Santa, non si è posta su di un piedistallo; non ha tenuto per se; nel cuore della fraternità è rimasta come Madre perché tutti, nel vivere da fratelli sentissero di appartenere gli uni agli altri. Chiediamo a Dio, per sua intercessione, di vivere nella concordia e nella pace con ogni fratello e sorella e di condividere i doni, e di condividere noi stessi.

Maria, madre della fraternità, prega per noi.

3. Maria, donna della prossimità

Fratelli tutti – Capitolo secondo – Un estraneo sulla strada (56-86)

L’enciclica di Papa Francesco è stata definita da alcuni, un’enciclica poco teologica (Luca Marcolivio). Non si parla troppo di Dio. Certamente non è una enciclica che tratta della Trinità … o di Gesù Cristo … o del Padre …. È una enciclica sociale, che si inserisce nel magistero sociale della Chiesa (quasi un compendio). Ma cosa vuol dire? Vuol dire che parla della carità declinata nelle relazioni tra persone, tra istituzioni, tra popoli e nazioni e questo tema è proposto a partire dall’uomo. Quell’uomo che, come ci ha ricordato San Giovanni Paolo II, “è la prima e fondamentale via della Chiesa” (Lett. Enc. Redemptor Hominis, 14); quell’uomo le cui gioie e speranze, tristezze e angosce “sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (GS 1) ci ricorda il Concilio Vaticano II citato da Francesco (FT 56).

È una enciclica che parla all’uomo, ad ogni uomo di buona volontà, e parla dell’uomo e parlando dell’uomo, parla di Dio. Ed ecco allora che al centro (non al centro del testo perché siamo ancora all’inizio, ma idealmente ne costituisce il cuore pulsante) un intero capitolo è dedicato ad una vicenda che riguarda l’uomo, l’uomo ferito e che è una delle più meravigliose pagine evangeliche contenute nel Vangelo di Luca. Si tratta del secondo capitolo interamente dedicato alla notissima parabola che noi abbiamo intitolato: del buon samaritano (Lc 10, 25-37). In realtà questo titolo nel testo del vangelo non c’è. Siamo noi che, leggendo questa parabola, dopo aver ascoltato quanto un samaritano ha fatto nei confronti di un uomo incappato nei briganti e lasciato come morto sul ciglio della strada, diciamo di lui, e siamo tutti d’accordo: è il buon samaritano.

Papa Francesco introduce questo capitolo con queste parole: “Nell’intento di cercare una luce in mezzo a ciò che stiamo vivendo, e prima di impostare alcune linee di azione, intendo dedicare un capitolo a una parabola narrata da Gesù duemila anni fa. Infatti, benché questa Lettera sia rivolta a tutte le persone di buona volontà, al di là delle loro convinzioni religiose, la parabola si esprime in modo tale che chiunque di noi può lasciarsene interpellare” (FT 56).

 Mette dunque al centro di questa enciclica quest’uomo che poi riprenderà anche nel capitolo terzo. Però coglie un’altra caratteristica di questo samaritano e lo esprime nel titolo che sceglie per questo secondo capitolo: un estraneo sulla strada. “Era semplicemente un estraneo, senza un proprio posto nella società” (n. 101). Perché Papa Francesco sottolinea questa caratteristica, accanto certo alla bontà, alla generosità, alla disponibilità, all’attenzione manifestati da questo uomo? Perché è proprio questa sua condizione che lo rende prossimo dell’uomo ferito, che lo rende capace di vedere e non passare oltre, come invece fanno sacerdote e levita. È libero dai condizionamenti dei ruoli, da una appartenenza che può rendere schiavi quando diventa esclusiva invece che inclusiva, è libero di lasciare i propri programmi, di ridefinire i suoi tempi e le sue priorità per fare spazio al fratello ferito.

E accanto al samaritano, quasi a costituirne un’unica realtà, sta quell’uomo ferito, lasciato ai margini, quel “nessuno” che “non apparteneva a un gruppo degno di considerazione, non aveva alcun ruolo nella costruzione della storia” (n. 101). Il samaritano è proposto come modello del prendersi cura e l’uomo ferito è l’emblema dell’uomo di oggi, col quale ciascuno può identificarsi. Miseria e grandezza dell’umanità. Miseria perché sono tanti gli uomini buttati al ciglio della strada. Rischiamo tutti di essere o briganti o indifferenti … se c’è un uomo ferito e dimenticato significa che dall’altra parte c’è qualcuno che ha ferito (i briganti) e qualcuno che ha fatto finta di non vedere, che è passato a distanza. C’è una unica via di uscita “per riscostruire questo mondo che ci dà pena. Davanti a tanto dolore, a tante ferite, l’unica via di uscita è essere come il buon samaritano”. (FT 67). E questa è la grandezza della nostra umanità: siamo capaci di amare, di un amore capace di ridare vita, di prendersi cura, di scendere da cavallo per far posto all’altro, di portare alla locanda, di perdere tempo per il bene, di suscitare collaborazione … siamo capaci di ridare vita. C’è molto di buono nell’umanità. C’è soprattutto il bene nell’umanità. Gesù “ha fiducia nella parte migliore dello Spirito umano e con la parabola la incoraggia affinché aderisca all’amore, recuperi il sofferente e costruisca una società degna di questo nome” (FT 71).

“Vivere indifferenti davanti al dolore non è una scelta possibile; non possiamo lasciare che qualcuno rimanga “ai margini della vita”. Questo ci deve indignare, fino a farci scendere dalla nostra serenità per sconvolgerci con la sofferenza umana. Questa è dignità”. (FT 68).

Una domanda ci viene consegnata allora, che prendiamo proprio come punto di riflessione, di esame di coscienza, di preghiera per oggi: “Con chi ti identifichi? […] A quale di loro assomigli? […] Dobbiamo riconoscere la tentazione che ci circonda di disinteressarci degli altri, specialmente dei più deboli. […] Ci siamo abituati a girare lo sguardo” (FT 64).

E per noi, che siamo qui, ad invocare Maria, che preghiamo e crediamo in Dio, il racconto della parabola è particolarmente provocatorio. Infatti le due persone che vengono descritte nel testo che “passano altre ….” sono “persone religiose. Di più, si dedicavano a dare culto a Dio: un sacerdote e un levita. Questo è degno di speciale nota: indica che il fatto di credere in Dio e di adorarlo non garantisce di vivere come a Dio piace” (FT 74). Tutti rischiamo di portare in noi “l’intima presunzione di essere migliori di quelli che non …. Mentre “il paradosso è che, a volte, coloro che dicono di non credere possono vivere la volontà di Dio meglio dei credenti” (FT 74).

“Ogni giorno ci viene offerta una nuova opportunità, una nuova tappa. […] Oggi siamo di fronte alla grande occasione di esprimere il nostro essere fratelli, di essere altri buoni samaritani che prendono su di sé il dolore dei fallimenti, invece di fomentare odi e risentimenti” (FT 77). Certo che non mancano le difficoltà. Ma papa Francesco ci ricorda che “le difficoltà che sembrano enormi sono l’opportunità per crescere” (FT 78). A patto che non lo facciamo da soli, individualmente.

Allora ci rivolgiamo a Maria che invochiamo con il titolo di donna della prossimità o del farsi prossimo. Lei ha vissuto il farsi prossimo di Dio nella sua povera vita. E ha proclamato: “L’anima mia magnifica il Signore perché ha guardato l’umiltà (che si può tradurre anche ‘piccolezza’ nel senso di misero, tribolato) della sua serva” (Lc 1,48). Lei non si è girata dall’altra parte, all’annuncio dell’angelo. Non lo ha fatto quando a Cana è mancato il vino. Non lo ha fatto davanti al Figlio che dava la sua vita per noi, sulla croce. Ci insegni a lasciare che la sofferenza dei fratelli ci tocchi, ci indigni, ci muova a gesti di cura.

Maria, donna della prossimità, prega per noi

2. Maria, madre dolce e premurosa di tutti i bisognosi

Fratelli tutti – Capitolo primo – Le ombre di un mondo chiuso (nn 9-55)

Il vangelo che oggi abbiamo ascoltato nella liturgia (Mc 16,15-18) ci dice che c’è una lingua nuova che i discepoli sono invitati a portare al mondo. Non si tratta di una soluzione magica di tutti i problemi del mondo. Non è in questa direzione che vanno letti i “segni che accompagneranno quelli che credono”. Si tratta di una nuova logica nelle relazioni, dove a prevalere non sono le divisioni (demoni), parole che dividono, veleni che uccidono. Ma gesti di riconciliazione, di perdono, di guarigione.

Quello di una fratellanza universale, di una fraternità che abbracci il mondo intero, di una amicizia sociale che caratterizzi le relazioni tra gli uomini di ogni credo, di ogni fede, di ogni latitudine e longitudine nel mondo, che abbatta i confini è, lo dobbiamo dire, un sogno. Ne è molto consapevole papa Francesco che chiaramente lo afferma: “Sogniamo come un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli della stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!”. (FT 8).

Lo scopo di queste riflessioni che il Papa ci offre è quello di “far rinascere tra tutti un’aspirazione mondiale alla fraternità, riconoscendo la dignità di ogni persona umana” (Cfr FT 8).

Fra tutti … chi? Tutti noi, tutti gli uomini che vivono oggi questo tempo e in questo tempo. Un tempo, una realtà che Papa Francesco descrive, ponendo “attenzione ad alcune tendenze del mondo attuale che ostacolano lo sviluppo della fraternità universale” (FT 9).

Prima di indicare i passi da fare, gli elementi per costruire, papa Francesco ci invita a guardare la realtà. Il suo modo di procedere risponde ad uno schema che gli è familiare: vedere – giudicare – agire.

Prima di tutto occorre vedere la realtà per quella che è. Vedere con uno sguardo non superficiale e soprattutto correttamente illuminato. Io posso guardare per anni qualcosa .. ma se ciò che guardo resta al buio, o io osservo da una sola angolazione, non riuscirò mai a percepire, a vedere la realtà per quella che è. Se io sono abitato da pre-giudizi, i miei occhi, di una realtà, di una persona, vedranno solo alcune cose … e sempre quelle.

La prospettiva, l’angolo di visuale di papa Francesco sono gli ultimi, i sofferenti, i più poveri, “le periferie esistenziali” (Cfr Udienza di Papa Francesco, 27/03/2013).

Il punto di partenza di questo documento è un mondo diviso e l’analisi che Papa Francesco fa della realtà è un’analisi molto severa, molto dura. Se nella Laudato sii si era soffermato sul nostro mondo malato nelle sue strutture, la nostra casa comune, qui ampiamente si sofferma e descrive le nostre relazioni malate, fragili, addirittura imbruttite dal male. È un mondo ferito nelle relazioni, quello in cui viviamo. E queste ferite sono tutti gli ostacoli che ci impediscono di sognare insieme, che ci fanno dire: questo sogno è irrealizzabile. Anzi, sono proprio i “sogni che vanno in frantumi”. Scrive Papa Francesco: “Per decenni è sembrato che il mondo avesse imparato da tante guerre e fallimenti e si dirigesse lentamente verso varie forme di integrazione … ma la storia sta dando segni di un ritorno all’indietro” (FT 9-10). La constatazione è molto amara ed è descritta prendendo a prestito le parole del poeta romano Virgilio, che “evoca le lacrimevoli vicende umane” : “«La storia è lacrime, – o ‘ci sono lacrime delle cose’ e l’umano soffrire commuove la mente». (FT 34). E questo panorama è reso ancora più aspro, incerto, addirittura cupo dalla attuale crisi causata dalla pandemia ancora in corso e che, nonostante le attese e le speranze accese dall’arrivo dei vaccini, non lascia ancora intravvedere orizzonti di soluzione.

Sono ferite che il Papa chiama per nome.

Sono le ferite della politica per cui parole come “democrazia, libertà, giustizia, unità .. sono state manipolate, deformate per utilizzarle come strumenti di dominio, come titoli vuoti di contenuto che possono servire per giustificare qualsiasi azione” (FT 14).

Sono le ferite causate dalla “cultura dello scarto” per cui “certe parti dell’umanità sembrano sacrificabili a vantaggio di una selezione che favorisce un settore umano degno di vivere senza limiti” (FT 18).

Sono le ferite delle purtroppo sistematiche violazioni dei più elementari diritti umani, quelli che 70 anni fa, nel 1948, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite adottò solennemente, memore delle atrocità commesse durante il secondo conflitto mondiale affinché simili orrori non si ripetessero più.  (Cfr FT 22).

E che dire delle migrazioni? “I migranti – scrive il Papa – vengono considerati non abbastanza degni di partecipare alla vita sociale come qualsiasi altro, e si dimentica che possiedono la stessa intrinseca dignità di qualunque persona. […] Non si dirà mai che non sono umani, però in pratica, con le decisioni e il modo di trattarli, si manifesta che li si considera di minor valore, meno importanti, meno umani (FT 39).

Sono le ferite di un mondo che si “illude” di comunicare ma “i rapporti digitali, che dispensano dalla fatica di coltivare un’amicizia, una reciprocità stabile e anche un consenso che matura con il tempo, hanno un’apparenza di socievolezza. Non costruiscono veramente un ‘noi’, ma solitamente dissimulano e amplificano lo stesso individualismo che si esprime nella xenofobia e nel disprezzo de deboli”. In definitiva c’è il rischio di staccarsi dalla realtà concreta e di sgretolare il rispetto verso l’altro che invece ha “bisogno di gesti fisici, di espressioni del volto, di silenzi, di linguaggio corporeo, e persino di profumo, tremito nelle mani, rossore, sudore, perché tutto ciò parla e fa parte della comunicazione umana” (FT 43).

Non si tratta evidentemente di una lunga lamentazione per piangersi addosso né tanto meno di sterili aneliti nostalgici di un passato che non solo non esiste più ma, realisticamente non è mai esistito: una volta si che c’era la fede … oggi non si capisce più niente.

Non è guardando al passato con nostalgia ma al futuro con speranza, che potremo continuare a camminare verso la realizzazione del sogno di una umanità capace di fraternità.

L’ultima parola Francesco la riserva infatti alla speranza. È questo il giudizio sulla storia: c’è una speranza che abita il nostro orizzonte di futuro. Scrive: “Malgrado queste dense ombre che non vanno ignorate, nelle pagine seguenti desidero dare voce a tanti percorsi di speranza. Dio infatti continua a seminare nell’umanità semi di bene” (FT 54). Aveva già detto, papa Francesco, che “il tempo vale più dello spazio” ovvero che è più importante “iniziare processi che occupare spazi” (EG 223). E, commentando la parabola del grano e della zizzania (cf Mt 13,24-30) sottolinea: “Il nemico può occupare lo spazio del Regno e causare danno con la zizzania, ma è vinto dalla bontà del grano che si manifesta con il tempo” (EG 225).

Oggi ci affidiamo a Maria, invocandola come Madre dolce e premurosa di tutti i bisognosi. Il mondo con i suoi drammi, non è una entità astratta ma un popolo, una fraternità di donne e uomini che soffrono, che sono emarginati, esclusi, soli, cosificati dalle logiche di mercato. Lo sguardo di Maria, il cuore di Maria, dolce e premuroso verso i bisognosi, diventi il nostro cuore, di noi che siamo qui oggi ad invocarla. Il nostro sguardo, i nostri gesti diventino quei semi di bontà, di grano buono che non teme la zizzania perché sanno che, con il tempo, porteranno frutti per il Regno.

Anche Maria è stata chiamata a guardare al futuro con speranza, fidandosi delle promesse di Dio, nonostante i segni del suo presente fossero “bui”. Pensiamola sotto la croce, quando abbraccia quel Figlio morto, ucciso dalla cattiveria degli uomini. Sentiamola vicina e invochiamola:

Maria, madre dolce e premurosa di tutti i bisognosi, prega per noi.

1. Maria, donna senza confini

Fratelli Tutti – Introduzione (nn 1-8)

Oggi celebriamo la Domenica della Parola di Dio, istituita da Papa Francesco nel 2019. Tutte le domeniche noi ascoltiamo la Parola … ma una domenica, questa terza domenica del tempo ordinario siamo invitati a porvi particolare attenzione. Il Signore è in mezzo a noi e ci parla e ci nutre. Abbiamo bisogno di richiamarci sempre questa certezza. Questa giornata non è una volta l’anno ma una volta per tutto l’anno, ci ricordano i nostri vescovi.

Oggi l’invito che ci viene dalla Parola ascoltata è quello della conversione e della sequela. “Venite dietro a me…”. Senza voler forzare il senso del brano evangelico, potremmo dire che Gesù chiama uomini e donne a seguirlo per farli diventare fratelli. Questa è la conversione alla quale siamo chiamati. Dal “mare” della vita” Gesù fa nascere uomini che sappiamo vivere da fratelli. Non più solo fratello di … sorella di … ma “sogniamo un’unica umanità, come viandanti fatti della stessa carne umana, come figli di questa stessa terra che ospita tutti noi, ciascuno con la ricchezza della sua fede o delle sue convinzioni, ciascuno con la propria voce, tutti fratelli!” (FT 8)

In questa novena della Madonna del Fuoco siamo invitati a metterci in ascolto della parola di Papa Francesco che ci ha consegnato, il 3 ottobre scorso, la sua terza enciclica: “Fratelli tutti”.

Francesco aveva iniziato il suo pontificato, otto anni fa, con due gesti che già preparavano, in qualche modo, questa enciclica. Il titolo di questa enciclica è presa dagli scritti di San  Francesco. E noi sappiamo che il nome da papa il cardinale Bergoglio lo ha preso proprio da Francesco, il Santo di Assisi.

E sappiamo bene che lo ha fatto, così lui stesso ha raccontato, perché il suo amico. il cardinale Claudio Hummes, nell’abbracciarlo gli sussurrò: “Non dimenticarti dei poveri”. Quella parola gli è entrata nel cuore: poveri … insieme immediatamente ad un’altra: guerra. Povertà e guerra sono i due flagelli che, ovunque, affliggono questa nostra umanità. E perciò San Francesco, uomo povero e di pace, non poteva non essere il suo nome da pontefice: un nome e un programma di vita.

E poi, affacciandosi su piazza San Pietro, ha pronunciato, fra le altre, le seguenti parole: “E adesso, incominciamo questo cammino: Vescovo e popolo. Questo cammino della Chiesa di Roma, che è quella che presiede nella carità tutte le Chiese. Un cammino di fratellanza, di amore, di fiducia tra noi. Preghiamo sempre per noi: l’uno per l’altro. Preghiamo per tutto il mondo, perché ci sia una grande fratellanza.” (Primo saluto del Santo Padre). Era il 13 marzo del 2013. Con questa enciclica, “Fratelli Tutti”, sembra dare compimento al suo magistero, includendolo in questi due elementi.

Il titolo di questo documento è tratto proprio dagli scritti di San Francesco come tra l’altro aveva già fatto con la precedente enciclica, la Laudato sii. Non si tratta evidentemente solo di slogan, ma di contenuti, di sostanza cui Papa Francesco fa riferimento. La fraternità appunto.

Questo testo è stato firmato proprio sull’altare della cripta di Assisi, di fronte alla tomba del Santo, guardando in faccio il Santo, che ad Assisi è sepolto circondato dai suoi primi compagni: potremmo quasi definirla una tomba “comunitaria”, un santuario della fraternità (sono Fra Masseo, Frate Leone, Frate Rufino, Fra Angelo Tancredi), in quella Assisi che già  San Giovanni Paolo II aveva definito “altare e cattedra di pace”.

Anche per questo pontefice Assisi e la testimonianza di San Francesco sono stati un punto di riferimento costante. Appena 18 giorni dopo la usa elezione vi fece visita. Era il 5 novembre del 1978. E questo Santo Papa così pregò sulla tomba del Santo, Patrono d’Italia:

“Tu, che hai tanto avvicinato il Cristo alla tua epoca, aiutaci ad avvicinare Cristo alla nostra epoca,
ai nostri difficili e critici tempi. Aiutaci!
Questi tempi attendono Cristo con grandissima ansia, benché molti uomini della nostra epoca
non se ne rendano conto”.

Ecco allora, un riferimento a San Francesco non casuale, ma profondamente inserito e radicato nel cammino della Chiesa.

E poi il tema, il cuore di questa enciclica: la “fratellanza” e la “fraternità”, ben espresso nel sottotitolo, “la fraternità e l’amicizia sociale”. A questo tema papa Francesco ha dedicato le sue prime parole e tanti interventi del suo pontificato. Al n. 5 della FT leggiamo: “Le questioni legate alla fraternità e all’amicizia sociale sono sempre state tra le mie preoccupazioni. Negli ultimi anni ho fatto riferimento ad esse più volte e in diversi luoghi. Ho voluto raccogliere in questa Enciclica molti di tali interventi collocandoli in un contesto più ampio di riflessione”.

Questo testo rappresenta la terza enciclica firmata da Papa Francesco. La prima, la “Lumen Fidei”, enciclica sulla fede, che segna il passaggio con il pontificato di papa Benedetto; la seconda è la “Laudato sìì”, enciclica sulla cura della casa comune, ed ora la “Fratelli tutti”, enciclica sulla fraternità e l’amicizia sociale. Se volessimo vedervi una sorta di costruzione diremmo che la prima pone le fondamenta, la fede che è foriera di pace perché “la luce della fede è in grado di valorizzare la ricchezza delle relazioni umane, la loro capacità di mantenersi, di essere affidabili, di arricchire la vita comune” (LF n. 51). La seconda innalza le colonne: il rispetto per il creato, perché, come vi leggiamo proprio nel suo inizio, “niente di questo mondo ci risulta indifferente” (LS n. 3). Ecco perché, in ragione della nostra fede, noi possiamo e dobbiamo mettere in discussione i sistemi iniqui che stanno avvelenando il nostro mondo e proporre un nuovo modello che nel testo dell’enciclica appare più volte: quello di una “ecologia integrale”. La terza pone il necessario completamento: la fratellanza che “diventa solidarietà per i più poveri, perché nessuno rimanga indietro, perché nessuno rimanga solo” (fra Enzo Fortunato).

Ecco così delineato un modello di uomo: l’uomo della fede e della pace, l’uomo riconciliato con i fratelli e con tutto il creato, l’uomo della solidarietà, della fratellanza universale e dell’amicizia sociale.

Il titolo di questa enciclica è tratto proprio da una espressione che San Francesco utilizza in uno dei suoi scritti, le Ammonizioni. Si tratta di un testo che contiene delle esortazioni che San Francesco rivolge ai suoi primi compagni ma che assumono un valore universale. Il testo citato da papa Francesco è il seguente: “Guardiamo con attenzione fratelli tutti, il buon pastore, che per salvare le sue pecore sostenne la passione della croce” (FF  155). Dunque un richiamo, da parte di San Francesco ad imitare Cristo, il buon pastore, che dà la sua vita per i fratelli. È qui che si fonda la fraternità cioè un modo di vivere che abbia il “sapore del Vangelo” (FT 1): essere disposti ad “un amore che va al di là delle barriere della geografia e dello spazio”. Amare l’altro quando è lontano quanto se fosse accanto … questo ci rende fratelli. Dunque non è una condizione previa, ma il frutto di un cammino, una beatitudine da costruire. E l’enciclica allora è un percorso per diventare fratelli.

Un percorso che, anche se brevemente, cercheremo di fare insieme, mentre invochiamo Maria, nostra sorella nella fede. Noi la invochiamo spessissimo come Madre … qui a Forlì con il titolo di Madonna del fuoco, per la storia legata a questa immagine. Ma potremmo proprio invocarla come sorella; sorella perché donna senza confini. È così che la vogliamo sentire, in questo nostro cammino: vicina, invocata, attenta verso tutti. Lasciamo che sia lei a prenderci per mano e a condurci oltre i confini nei quali a volte rischiamo di rinchiuderci: quelli della nostra mente, quelli della nostra famiglia, quelli della nostra comunità, quelli del nostro paese, persino, a volte, quelli della Chiesa. Questi confini diventano un limite al “diventare fratelli”. Abitiamo invece tutti questi spazi facendoli diventare occasioni per allenarci a superare questi confini, mossi dal desiderio di oltrepassarli tutti, perché fratelli, sorelle, si diventa alla sequela di Cristo, se saremo capaci di abbracciare il lontano come se fosse vicino, e abbracciare, nel vicino, fino all’ultimo uomo che esiste sulla faccia della terra.

Allora invochiamo insieme: Maria, donna senza confini, prega per noi.